di Alfredo Facchini
Non sono un complottista, perché un complottista crede a tutto o a niente, che sono le due facce della stessa medaglia. Non solleva dubbi o domande, ha solo certezze.
Ma i complotti esistono, eccome.
Per noi che viviamo in Italia, uno per tutti: la “strategia della tensione”. Bombe e stragi nelle piazze e sui treni.
Protagonisti: l’Ufficio Affari Riservati del ministero degli Interni, 007 infami , massoni, neofascisti.
Tutto scritto nero su bianco in sentenze passate in giudicato.
Che poi nessuno è andato in galera è un’altra storia. Les italiens.
E’ dal 2002 che mi chiedo che cosa avvenne veramente l’”Undici Settembre” e negli anni ho imparato ad osservare solo e soltanto i fatti.
Ho scritto un libro nel 2007 dove mettevo in fila documenti e testimonianze che portano alla luce lacune, omissioni e falsificazioni presenti nella versione ufficiale.
Ma non ho mai trovato appassionanti le dispute senza fine fra sostenitori della versione ufficiale e cosiddetti complottisti.
Come se ne esce da controversie come quelle scaturite, per esempio, intorno al foro del Pentagono?
C’è chi afferma che è bello largo e chi al contrario è troppo stretto per l’impatto di un Boeing. Ma chi di noi ha mai avuto accesso alla scena del crimine?
Per tagliare la testa al toro sarebbe bastato alle autorità militari mostrare il contenuto di uno dei tanti filmati ripresi dalle telecamere di sorveglianza dislocate lungo il perimetro del Pentagono.
Ed invece le uniche sequenze di immagini rese pubbliche non consentono in modo incontrovertibile di individuare che tipo di oggetto abbia effettivamente colpito l’edificio. Senza video, nell’era dei media, le discussioni continueranno inevitabilmente all’infinito.
Ecco perché è consigliabile stare ai fatti e a distanza di 21 anni da quell’inferno è possibile affermare, senza tema di smentita, che almeno da un punto di vista giudiziario non un solo processo è stato celebrato contro esecutori e mandanti del più sanguinoso atto di terrorismo della Storia.
Fatta eccezione per Zacarias Moussaoui, figura di secondo piano, aspirante dirottatore arrestato pochi giorni prima degli attentati mentre si addestrava in una scuola di volo americana.
Anzi, l’indiziato numero uno, Osama Bin Laden, che ha fatto la fine che conosciamo, in vita non era mai stato formalmente incriminato da un Gran Giurì per le stragi dell’11 settembre, mentre era ricercato per gli attentati contro le ambasciate degli Stati Uniti a Dar-es-Salam in Tanzania e a Nairobi in Kenia, avvenuti il 7 agosto 1998.
Sono stati invece incriminati cinque detenuti “ospitati” a Guantanamo: sono accusati di aver organizzato gli attacchi dell’11/9.
Ma l’iter giudiziario che avrebbe dovuto portare i cinque presunti terroristi di fronte a una commissione militare speciale, vent’anni dopo è ancora congelato.
A guidare i cosiddetti “9/11 five” c’è il famigerato, Khalid Sheikh Mohammed, ritenuto la mente dell’undici settembre.
Catturato in Pakistan nel 2003, di lui si erano perse le tracce nelle prigioni segrete della CIA sino al giugno del 2008 quando è ricomparso in un’aula di Camp Justice, una struttura per i processi ai terroristi costruita nella base navale cubana.
Magro, turbante in testa, una lunga e folta barba, occhiali neri, Ksm, ha rivelato – stando alle cronache – che fu lui ad avvicinare Osama Bin Laden nel 1996 per proporgli di dirottare aerei passeggeri da far schiantare contro edifici pubblici negli Stati Uniti.
Reo confesso, dunque, al tal punto da accollarsi la responsabilità di una lunga sfilza di altre nefandezze (31) tra cui spiccano il mancato assassinio degli ex presidenti Usa, Carter e Clinton, di quello pakistano, Pervez Musharraf, nonché di Papa Wojtyla nel 1995 a Manila.
Con le sue mani avrebbe tagliato invece la gola del giornalista americano, Daniel Pearl. Infine ha ammesso di essere il regista del progetto “Bojinka”, non andato a segno, che prevedeva di far saltare contemporaneamente 12 aerei americani sul pacifico ben prima dell’11 settembre.
Il guaio è che queste sconvolgenti confessioni sono avvenute – per stessa ammissione della CIA – sotto tortura. Mentre i suoi carcerieri lo sottoponevano alla procedura nota come “waterboarding”, nella quale il sospetto viene sdraiato con la testa più bassa dei piedi, bendato e legato. Gli si mette in bocca un panno, e gli si versano in faccia litri e litri di acqua, dandogli la sensazione di annegare. Una tecnica praticata durante la “Grande Inquisizione”.
Secondo la documentazione resa pubblica da Barack Obama, Khalid Sheikh Mohammed, dopo la cattura, è stato sottoposto per 183 volte in un mese alla tortura del waterboarding, una media di sei al giorno.
Il 24 agosto del 2009 scorso un rapporto dell’intelligence ha gettato una luce ancora più sinistra sulla vicenda: nelle 159 pagine si legge che gli 007 che interrogarono, Khalid Sheikh Mohammed, lo minacciarono di uccidergli i figli di 7 e 9 anni se non avesse confessato.
Nessun tribunale americano, neppure negli anni della seconda Guerra Mondiale, quando l’Fbi arrestava gli agenti hitleriani in Usa, ha mai accettato confessioni estorte con la tortura.
Nella culla del “Giusto Processo” come si possono ritenere attendibili le 26 pagine di confessioni rese da Mohammed, detenuto da anni in condizioni bestiali, sottoposto a torture fisiche e mentali tali da cancellarne la personalità?
Non sono un “complottista”.
Ma sono nato e cresciuto nel Paese delle stragi di Stato. Ho imparato a dubitare. Mi viene facile.
Alfredo Facchini
nota di Diogene: il libro di Alfredo Facchini “11 Settembre – Il Giorno che Cambiò la Storia” è uscito per Nuovi Mondi Media
