di Rocco Orsini
Sotto il sole di Madrid si è consumata pochi giorni fa l’ennesima pagina del dramma del popolo curdo quando, durante l’ultimo vertice Nato tenutosi nella capitale spagnola il 28-29 giugno, la Turchia ha dato l’assenso all’entrata di Svezia e Finlandia nell’Alleanza Atlantica. La natura del baratto è ormai chiara a tutti: al fine di permettere a quei paesi, tradizionalmente neutrali, di far parte della Nato, si sono dovute fare larghe concessioni: dalle estradizioni richieste alla definizione come “terroristi” delle milizie curde fino alla fine dell’embargo militare nei confronti del Sultano, molto è stato concesso riguardo le pretese di Erdogan sul completo isolamento ed abbandono dei curdi, finora invece sostenuti da Svezia e Finlandia.
Purtroppo pare che la protezione occidentale sia una coperta corta, pronta a lasciare scoperto sempre qualcuno, anche se in questo caso forse la scelta prioritaria sarebbe dovuta essere nei confronti di un popolo già impegnato da anni in un conflitto asimmetrico in cui la Turchia, secondo esercito della Nato, occupa militarmente porzioni di territorio siriano ed iracheno, nel caso in cui non si voglia usare la parola “curdo”, senza che nessuno batta ciglio o mai lo abbia fatto.
Eppure, se è chiaro a tutti che il governo turco costituisce un pericolo per il popolo curdo, dovremmo chiederci perché questo assioma è indiscutibilmente valido e, nel caso la domanda fosse, com’è, molto impegnativa almeno porci una domanda più ristretta riguardo chi sia l’uomo che rappresenta la Sublime Porta da venti anni e quale sia il suo rapporto con la “questione curda”.
La dialettica politica nella Turchia contemporanea non va guardata con le lenti del nostro percorso “democratico” bensì contestualizzando la Storia di un Paese che in un arco molto breve di tempo ha avuto profonde trasformazioni imposte dall’alto senza perdere la sua identità e natura profonda, in una tensione continua tra una laica e “socialista” modernità nazionalista, sempre in uniforme militare ed eredità di Kemal Ataturk che la impose a suon di rapide e spiazzanti riforme, e invece una mai sopita identità religiosa figlia dell’Impero Ottomano il cui sguardo volge sempre a Levante e al passato.
I militari si sono sempre sentiti i garanti ufficiali della laicità dello Stato intervenendo ogni volta che la vedevano minacciata dal sentimento religioso, sciogliendo il partito che ne era espressione in quel momento e imponendo “l’ordine laico” per qualche anno. Protagonista degli ultimi due colpi di stato di questo tipo, prima della comparsa di Erdogan, era stato Necmettin Erbakan: espressione del risveglio religioso che dagli anni settanta ha caratterizzato il Medio Oriente e padre del sogno di unità tra i popoli di lingua turca (panturanismo), i due governi di cui è stato protagonista si sono conclusi entrambi con un intervento militare e lo scioglimento del suo partito.
Recep Tayyp Erdogan, discepolo di Erbakan e sindaco di Istanbul, nel 2002 si distacca dal maestro candidandosi alle elezioni col suo nuovo partito, l’AKP, andando al governo con un programma ben diverso da lui. Al vecchio panturanismo che nel 96 guardava ad est, Erdogan oppone nel 2002 una forza politica di centrodestra, europeista e di ispirazione islamica. Questa era una boccata d’ossigeno per i curdi che, per quanto strano possa sembrare, hanno sempre avuto un rapporto migliore con l’anima religiosa della politica turca che, in nome della comune confessione islamica, si sente più accomunata ai curdi della sinistra kemalista.
Infatti il Chp, partito laico e laicista di ispirazione socialista ed espressione degli apparati statale e militare, fu fondato da Kemal Ataturk quando, ad un Impero Ottomano in via di disgregazione, sostituì con immenso sforzo una Turchia laica e moderna, centrata sulla penisola anatolica e compatta nella etnia turca: il nazionalismo di cui necessitava una nazione appena nata non era disposto ad accettare altre etnie nella sua Anatolia, neanche altri musulmani come i curdi, tanto che la Turchia continua a chiamarli semplicemente “Turchi delle montagne”.
E così Erdogan per alcuni anni mantenne fede alle promesse fatte e, mentre il suo partito scalzava i kemalisti dalle istituzioni e rimetteva in riga i militari, mentre nel periodo 2003-16 la Turchia viveva il suo boom economico e la base elettorale del futuro Sultano si allargava in quegli strati popolari che ne avevano goduto, sembrava che l’integrazione europea e lo stato di diritto per i curdi si avvicinassero.
Tuttavia nello stesso periodo le trattative con Bruxelles si arenavano a causa anche delle forse troppe incertezze europee, Erdogan virava sempre più su posizioni presidenzialiste che gli sarebbero state confermate dal noto referendum del 2017 e inoltre il boom economico, con una nuova sicurezza ad accompagnarlo, solleticava quei venti di Levante che riportavano lo spirito del vecchio maestro Erbakan a materializzarsi nella cosiddetta “profondità strategica”.
Di cosa si tratta quando parliamo di “profondità strategica”? Esattamente di quello che in Occidente abbiamo cominciato a chiamare da alcuni anni “neo-ottomanismo”, ovvero, secondo Amhet Davutoglu, storico ministro di Erdogan e uno dei principali ideologi del Partito con il libro del 2002 che portava proprio il nome di “profondità strategica”, la politica che vede una Turchia forte costruire una propria egemonia regionale su quei territori un tempo soggetti all’Impero Ottomano.
Senza avere coscienza di questo pilastro della politica di quello che, a buon diritto ormai, possiamo chiamare il Sultano risulta difficile comprendere il grande attivismo internazionale della Sublime Porta che, com’è sua tradizione, barcamenandosi tra Oriente e Occidente si sta ritagliando il suo importante spazio geopolitico.
Da qui la partecipazione turca in Libia al fianco di Serraj e il tentativo di creare una Zona Economica Esclusiva che ha portato a nuovi attriti con la Grecia, la partecipazione turca in Nagorno Karabakh a sostegno del turcofono Azerbaijan e il triste intervento in Siria che ha visto l’esercito di Istanbul invadere quel Rojava che si era battuto valorosamente contro il Califfato finché Trump non li abbandonò al Sultano.
Ora è quella stessa Sublime Porta, che pur fornendo armi a Kiev mentre non interrompe le relazioni con Mosca, ad avere aperto le trattative tra Russia e Ucraina che hanno portato al possibile sblocco del grano, mostrando un Erdogan padrone di casa e conoscitore del suo campo di azione e mentre le democrazie europee languono inermi, incapaci di comprendere le sue periferie dal Medio Oriente al Mediterraneo, il Sultano danza sul Bosforo con un piede a Occidente e l’altro ad Oriente.
di Rocco Orsini