Dovremmo adesso, con saccenza fuori luogo, rassicurare le nostre anime che il familicidio di Paderno Dugnano abbia una qualche spiegazione “razionale”. Un trauma, una disfunzionalità, alcolisti o tossici in famiglia, un torto subito dall’assassino. Un qualsiasi rapporto di causa ed effetto che ci tranquillizzi, che alla domanda “come è potuto accadere” dia una risposta compiuta, un perchè, una logica.
Ebbene non c’è. Mentre il coro di esperti ufficiali nel mainstream e quelli un tanto al chilo sui social si esercita nell’individuare ipotesi, l’unica verità che sembra emergere con qualche forza è il “disagio interiore” che il diciassettenne pluri omicida ha confessato agli inquirenti.
Tra il disagio interiore e sterminare a coltellate padre, madre e fratello piccolo corre un fiume lungo quanto il Nilo. Se conoscete qualcuno che non provi o abbia provato disagio interiore segnalatelo ai servizi sociali o in alternativa a Forbes, la rivista dei miliardari.
In controtendenza con la regola sociale che tende a colpevolizzare tutto il contorno e mai chi compie la scelta decisiva delle azioni che compie, qui abbiamo un adolescente che, non in un raptus ma nel crescendo di una decisione maturata nel tempo, colpisce con decine di coltellate nel sonno il fratello e i genitori e che poi lucidamente mente alla polizia perchè sa quali sono le conseguenze.
Allora proviamo a immaginare il mondo di Riccardo, che si sentiva un corpo estraneo, così dice al magistrato almeno.”Non è successo niente di particolare sabato sera. Ma ci pensavo da un po’, era una cosa che covavo”, ha raccontato. Nè era successo niente di particolare sabato scorso. Le dichiarazioni sono riprese dai verbali del suo interrogatorio.
Si alza mentre gli altri dormono, prende un coltello da carne e inizia il massacro. Inizia con il fratello di 12 anni, “ma senza una ragione precisa” sostiene, perchè da molto tempo ha un disagio, un malessere che lo fa sentire solo anche in mezzo agli altri, non aveva un “vero dialogo” con nessuno. E dopo la confessione agli inquirenti aggiunge anche che appena uccisi i familiari si rende conto che quel malessere non è scomparso con il pluriomicidio.
Non è un caso che colpisca per primo il fratello piccolo, il più indifeso e forse il suo concorrente principale in merito alle attenzioni ricevute in famiglia. Ma quel che c’è da capire è molto più banale: Riccardo sa cos’è la morte? Probabilmente lo capisce soltanto dopo che ha ucciso, quando il suo malessere resta lì dove stava prima con l’aggiunta di diversi anni in prospettiva da passare in carcere o in istituto psichiatrico.
Però Riccardo sa benissimo cosa accade a chi uccide, vuole evitarne le conseguenze e quindi tenta una difesa, debole, che cade subito, ma prova a negare la sua responsabilità. La sua razionalità è attiva e non sembra intermittente.
Sorridevano, erano felici gli altri tre mentre lui provava malessere? Non lo sappiamo, ce lo diranno i giornali nei prossimi giorni, alternando ritratti idilliaci a dipinti foschi. Quello che appare all’esterno è una fortezza, la famiglia appunto, impossibile da penetrare dall’esterno come quasi tutte le famiglie. Riccardo infatti quella fortezza l’ha scalata e disgregata dall’interno.
Sorge allora il dubbio che, se adesso sa cosa sia la morte, Riccardo non sappia cosa sia la vita. Che non è un problema filosofico tra Heidegger e Kierkegaard, ma è il senso di convivere con un nucleo di affetti soggettivi e relazioni oggettive affrontando le frustrazioni che ne derivano.
Perchè noi non ammazziamo chi riteniamo responsabile del nostro malessere? Soprattutto per le conseguenze, risponderebbe un cinico, ma più materialisticamente perchè acquisiamo nel corso dell’apprendimento la coscienza che l’eliminazione fisica di un altro non risolve i nostri problemi. Oltre a, semplicemente, non essere giusto.
Un tratto di apprendimento che Riccardo non ha compiuto per un motivo molto semplice: la famiglia è data per scontata, è quella, non ci sono emendamenti o riforme alla vita familiare, o l’accetti o te ne vai. O la stermini, quando le valvolette del cervello vanno in tilt.
Senza nulla voler togliere alla responsabilità personale di Riccardo, che comunque non ha agito in preda a un raptus e contro sconosciuti, a differenza dell’omicidio di Sharon Verzeni, l’elemento famiglia è centrale nel familicidio di Paderno Dugnano. Ma è argomento indigesto da commentare.
Intanto perchè la casistica dei familicidi si conclude quasi sempre con il suicidio dell’assassino. E qui non ce l’abbiamo. Questo delitto assomiglia più a quello di Ferdinando Carretta, che sterminò senza motivo economico la famiglia a Parma e, più grande di età di Riccardo e più vissuto, scappò a Londra e per molti anni la fece franca. Diverso fu il movente, fondamentalmente economico, di Pietro Maso che agì anche con dei complici.
I manuali di criminologia indicano tra i motivi di familicidio separazione coniugale, seguita da controversie su affidamento e diritto di visita, discordia coniugale, infelicità, violenza domestica, abuso sessuale, minacce di danni a se stessi o ad altri. L’omicida è solitamente un maschio bianco di circa 30 anni. L’assassino deluso cerca di punire la famiglia per non essere all’altezza dei suoi ideali di vita familiare.
Adesso noi dovremmo essere stati presenti ai momenti di vita della famiglia di Riccardo, per determinare se questa abbia sue responsabilità nell’aver fatto subire traumi a Riccardo o questa era soltanto la percezione di Riccardo, che dice “ci pensavo da un po’”.
La famiglia è il buco nero sociale di questi anni. Ha mutato radicalmente la sua chiave identitaria, rafforzando all’esterno il suo valore, soprattutto economico e politico. Alla famiglia è indirizzata la proposta dell’economia, alla famiglia si rivolge chi cerca voti, alla famiglia e ai suoi “valori” deve uniformarsi chi è conforme al modello sociale dominante.
Eppure, che la famiglia sia “esplosa” già molti decenni fa è sociologia, non un’ipotesi. Oggi che le tendenze della psichiatria vanno alla ricerca della devianza in geni ed enzimi, così come Lombroso a inizio ‘900 era convinto che i meridionali fossero “briganti” per motivi biologici, la famiglia è ancora più impenetrabile di 50 anni fa, quando era esplicitamente sotto accusa come luogo di produzione di dolore.
Se usciamo dalla polemica politica spicciola, non è soltanto ridicolo che chi governa oggi proponga un’idea della famiglia esattamente opposta al modello familiare in cui vive. E’ il sintomo più evidente di una doppia morale che culturalmente avvolge le discussioni laiche e religiose sulla famiglia.
Famiglia è una parola ancora ammantata di segretezza e imperscrutabilità, di ipocrisia (morale interna omertosa e morale esterna adeguata), di rapporti di potere espliciti (forse più facili da affrontare) e non espliciti come nel caso di Riccardo. La famiglia paga il mutuo e prima di dividersi per questioni affettive deve decidere se è economicamente conveniente dividersi o vale la pena vivere infelici con tutte le conseguenze che gravano sui figli.
Di cosa accade realmente in una famiglia abbiamo certezza solo nel caso di un corto circuito, come il pluriomicidio di Paderno Dugnano, che la rende aperta ed esaminabile. Pensare di poter prevenire quel familicidio è idea fantasiosa e con pochissimi appigli negli strumenti sociali che abbiamo oggi.
L’ultimo passaggio, quello che non riusciamo a capire, è come sia avvenuto in Riccardo lo scarto finale, la convinzione che l’omicidio sarebbe stata la soluzione al suo malessere. La responsabilità personale c’è, al di là dell’età e di altri orpelli giuridici che interesseranno i tribunali, e non vederla significa cancellare Riccardo come persona.
E’ proprio questo ultimo passaggio il terreno da esaminare, l’unico su cui possiamo intervenire con gli strumenti dell’analisi. Ovvero capire come il sistema di organizzazione economica e valoriale di quella famiglia, quella e non una generica famiglia, sia diventato il male nella mente di Riccardo, il suo concetto di male e dolore.
Senza questo elemento di congiunzione tra i morti e l’omicida possiamo parlare del delitto per secoli senza capire niente. Ma anche il non capire niente è diventato parte del gioco dell’informazione. Assommare una tale quantità di elementi marginali (il vicino, il coltello, il parroco, gli amici, la scuola) che renda difficile districare il filo dall’origine. Ma capire non è impossibile, se accettiamo di rimettere in discussione senza ipocrisie e doppie morali l’idea stessa di famiglia.