di Checchino Antonini
“I bassi salari in Italia non sono giustificati da una minor profittabilità delle imprese”. Ho copiato pari-pari questo leed da un report – il Global Attractivenes Index – della Fondazione Ambrosetti, il salotto buono della borghesia italiana che a Cernobbio, la scorsa settimana, ha tenuto la propria kermesse annuale per fare il punto con gli esecutori politici dei programmi liberisti. Il mainstream ha dato grande enfasi al faccia a faccia dei grandi leader ma perlopiù non ha dato troppo risalto, tranne La Stampa nelle pagine dell’economia, a questo rapporto che smentisce le fake più trite di imprenditori italiani stressati da fisco e costo del lavoro.
A parità di potere d’acquisto, continuo a copiare, i salari italiani sono equiparabili solo a quelli spagnoli mentre risultano inferiori di 8181 euro rispetto a quelli francesi, di 15 mila 226 euro rispetto a quelli tedeschi e ammontano al 55,4% di quelli Usa. Solo il Messico, tra i paesi OECD, ha una performance peggiore dell’Italia dove i salari in trent’anni sono cresciuti appena del 3,4%, la metà di quanto sono cresciuti in Spagna, un decimo di quanto sono aumentati in Germania e un undicesimo rispetto alla media Ue e al dato della Francia.
Tutto questo lo sapevamo. Non sapevamo, invece, e riprendo a copiare, che la remunerazione del capitale nelle imprese italiane è più alta: 42,1%, mezzo punto sopra la media UE, +3,2% rispetto alla Germania e +7,8 rispetto alla Francia. Le “nostre” imprese spendono meno per la remunerazione del lavoro. Qui i salari incidono per il 18,6% sui costi di produzione, mentre in Francia il lavoro costa il 26,8%, in Germania 25,7% e in Spagna 24,9%.
Anche i padroni, anzi i ricercatori per conto dei padroni, comprendono che la mancata crescita dei salari crea delle conseguenze: consumi stagnanti, distorsioni del mercato del lavoro, disuguaglianze. La raccomandazione è che per crescere in termini di Pil, l’Italia non dovrebbe trascurare la dinamica dei consumi che, tra il 2000 e il 2019, sono restati sostanzialmente stabili. E, ultima copiatura, ai bassi salari si aggiunge l’inflazione che grava in modo asimmetrico sulla popolazione colpendo più duramente le famiglie più povere. Da luglio del 2021 il reddito disponibile per spese out-of-pocket delle famiglie meno abbienti è crollato del 16,2%.
Se da un lato il salotto buono della borghesia chiede di intervenire sui salari, la cabina di comando, la Bce, ha fatto la scelta opposta alzando il costo del denaro sebbene l’inflazione non sia causata da un’ondata di aumenti salariali ma dalla speculazione sull’energia e dalla guerra. Invece di imporre regole alla speculazione finanziaria la Bce ha deciso di far pagare il conto della guerra ai popoli.
«L’evidenza scientifica mostra che in generale i banchieri centrali non sono in grado di governare l’inflazione – ha spiegato l’economista Emiliano Brancaccio su Radio Uno – quando il banchiere centrale aumenta i tassi la sua priorità è un’altra: compensare i creditori delle perdite subite a causa dell’inflazione. E’ una specie di ‘scala mobile’ per i capitalisti: loro ce l’hanno, i lavoratori no. I meccanismi per contenere l’inflazione sono altri. A partire dalla questione della guerra. Finché c’è la guerra, le tendenze al rialzo dei costi e dei prezzi perdurano”.
Un trentennio di politiche bipartisan di contrazione salariale è stato condito da leggi bipartisan che hanno reso il lavoro più precario, miliardi di incentivi non sono mai diventati gli investimenti promessi anche grazie a un’azione sindacale palesemente inadeguata se non proprio complice.
La galleria fotografica di un Paese in declino si arricchisce in queste ore di altri due rapporti.
Il primo è un rapporto OCSE sull’occupazione, presentato il 9 settembre a Parigi, che lancia l’allarme nelle proiezioni contenute nelle Prospettive dell’Occupazione Ocse 2022: «I salari reali scenderanno del 3% in Italia nel corso del 2022, contro una media Ocse del 2,3%… Nonostante l’aumento della tensione nel mercato del lavoro, la crescita salariale nominale rimane debole in Italia. Nel secondo trimestre 2022, la crescita annua dei salari orari negoziati è rimasta intorno all’1%, mentre l’inflazione ha raggiunto il 6,9% (contro una media Ocse del 9,7%)», si legge nella scheda dedicata all’Italia.
«In Italia – precisa ancora l’Ocse – l’incidenza di posti di lavoro vacanti ha raggiunto livelli record nella seconda metà del 2021, per stabilizzarsi intorno a 1,9 nel primo trimestre 2022. L’aumento del tasso è stato particolarmente forte nei servizi di alloggio e di ristorazione, dove ha raggiunto il 3% all’inizio del 2022». Questi posti sarebbero circa 430mila, dato pure in leggero aumento se non fosse che i disoccupati reali, stimati dalla fondazione di Vittorio nel terzo rapporto consultato per questo pezzo, sono circa 4 milioni e 300.000.
Per ogni posto di lavoro vacante, dunque, ci sono dieci disoccupati!
Nel rapporto «Il disagio occupazionale e la disoccupazione sostanziale nel 2021 in Italia» elaborato dalla Fondazione Di Vittorio si legge che, a fronte di un tasso di disoccupazione ufficiale del 9,5% nel 2021, la disoccupazione sostanziale arriva al 16% (salendo al 18,6% tra le donne e addirittura al 34,2% tra i giovani fino a 24 anni). In quest’area, che comprende disoccupati e inattivi (ovvero scoraggiati che non cercano neanche un posto, bloccati da motivi oggettivi o familiari, o ‘sospesi’ perché ad esempio in cassa integrazione), ricadono quasi 4,3 milioni di persone, delle quali formalmente disoccupate più di 2,3 milioni.
Se si aggiunge l’area del disagio occupazionale, che comprende chi ha un lavoro temporaneo o part-time involontario e che raccoglie quasi 4,9 milioni di persone, si arriva a più di 9,1 milioni in difficoltà. Situazioni che, a cascata, alimentano il bacino del lavoro povero. I dati sottolineano l’aumento dei precari. Nel 2008, a fronte di 23 milioni di occupati, circa 2,4 milioni avevano un contratto a tempo determinato. Oggi, con un numero simile di occupati, i precari sono 3,2 milioni (800 mila in più). Un picco, come già registrato a luglio di quest’anno negli ultimi dati Istat. Non solo: l’occupazione a termine, sostiene il rapporto, è utilizzata «come locomotiva» nelle fasi di crescita economica e «come ultima carrozza della quale liberarsi» nelle fasi recessive e di maggiore sofferenza del mercato del lavoro.
Intervistato da Radio Popolare, il ricercatore della Fondazione, Niccolò Giangrande sintetizza così: «Possiamo dire che circa 22 occupati su 100 vivono una condizione di disagio che è determinata o dal limitato orizzonte temporale del proprio rapporto di lavoro oppure da un numero di ore insufficiente rispetto alle reali necessità e abbiamo individuato un disagio che è più frequente proprio nell’occupazione femminile e nei giovanissimi».
E’ una situazione «negativa» e «in via di ulteriore deterioramento», secondo il presidente della Fondazione Di Vittorio, Fulvio Fammoni. E’, appunto, «la fotografia di un Paese in declino» che ha «urgenza di investimenti», dice la segretaria confederale dell a Cgil, Tania Scacchetti ma che forse ha bisogno di conflitto sociale: le imprese i soldi ce l’hanno, i profitti aumentano ma, anche grazie alle scelte della politica non li usano per pagare chi lavora. Una patrimoniale servirebbe a fargli pagare una parte del dovuto. Il salario minimo legale servirebbe a rimettere al centro il lavoro come variabile indipendente.
Checchino Antonini