di Alfredo Facchini
Nessuna sorpresa. Lo sapevamo. Benito Ignazio La Russa, non ci sarà alle prossime celebrazioni del 25 aprile. Il presidente del Senato lo annuncia in un’intervista, nella quale sostiene che non ci sarà «perché lì non si celebra una festa della libertà e della democrazia, ma qualcosa appannaggio di una certa sinistra».
La classica supercazzola.
Però, in un Paese decente, dopo una dichiarazione del genere il garante di tutti, il Presidente della Repubblica, dovrebbe chiamarlo al “Quirinale” e dirgli di sloggiare all’istante dalla carica che ricopre.
Ma è fantapolitica. Il nostro è un Paese smemorato e senza morale.
Colpa nostra, di “Noi” antifascisti che non siamo stati all’altezza dei nostri predecessori: i Partigiani.
Ancora prima, colpa di quella classe dirigente comunista e socialista, a partire da Togliatti, responsabile di una oscena riabilitazione degli artefici del “Ventennio”.
Ispirata all’esigenza di pacificazione, “l’amnistia del ‘46” presto si tramutò in un atroce errore: un perdono generalizzato, applicato anche a torturatori e assassini.
Tra loro c’erano anche personaggi di primo piano del regime, i gerarchi che costituivano il cerchio ristretto di Benito Mussolini: come Dino Grandi e Luigi Federzoni. Altri, come Renato Ricci e Junio Valerio Borghese, che avevano combattuto nelle fila della “Repubblica di Salò” accanto all’esercito tedesco, che all’epoca occupava il nord Italia.
C’è una storia semisconosciuta, coperta dal velo dell’oblio, che vale la pena riportare alla luce, che dà il senso di quanto sia stato beffardo il destino di chi ha fatto la “Resistenza”.
A ridosso della “Liberazione” e nell’immediato dopoguerra la magistratura, infestata di giudici fascisti, porto’ alla sbarra oltre duemila partigiani, accusati di reati commessi durante la lotta clandestina e una volta liquidato il fascismo.
Imputazioni relative a casi di cosiddetta “giustizia sommaria” contro aguzzini o delatori, pedine dell’apparato repressivo fascista.
Per diverse centinaia di imputati la strategia difensiva, puntò a mitigare le pene mediante il riconoscimento della seminfermità mentale.
Quando poi, nell’estate del 1946, “l’amnistia di Togliatti” spalancò le porte ai fascisti condannati o in attesa di giudizio, anche i partigiani beneficiarono del provvedimento, dal quale tuttavia venne esclusa la detenzione manicomiale.
Così, ex partigiani perfettamente sani di mente, furono costretti a scontare la detenzione da internati nei manicomi criminali, tra vessazioni e umiliazioni.
I fascisti fuori all’aria aperta e i partigiani rinchiusi nei manicomi. Allucinante.
Un destino altrettanto insopportabile è quello che capito’ ai componenti della “Volante Rossa”, attiva dal maggio del ‘45 al febbraio del ‘49, in particolare a Milano.
Comandata dal “tenente Alvaro”, nome di battaglia di Giulio Paggio, era composta da partigiani comunisti e operai che, con le loro azioni, volevano dare ancora respiro alla “Resistenza”.
Nel 1949, ventisette membri della “Volante Rossa” finirono in manette. Decretando la fine dell’organizzazione, subito rinnegata dal partito comunista.
Seguirono altri arresti. Altri militanti riuscirono a fuggire nell’Europa dell’Est.
Nel 1951 si svolse il processo davanti al tribunale di Verona.
Gli imputati furono 32, di cui 27 in detenzione e 5 latitanti. Le condanne furono 23, di cui 4 all’ergastolo.
Del resto, questa si, è storia nota, l’amministrazione pubblica che operò sotto il fascismo, con i primi governi a guida democristiana, restò salda al suo posto, lavorando come e più di prima, per fronteggiare il “pericolo comunista”.
Nel 1960, su 64 prefetti in servizio, ben 62 erano stati funzionari degli Interni durante la dittatura fascista e, su 241 vice-prefetti, tutti avevano fatto parte dell’amministrazione dello Stato durante il “Ventennio”.
Su 135 questori, 120 avevano fatto parte della polizia fascista e su 139 vice-questori, solo 5 risultavano aver contribuito alla lotta di “Liberazione”.
Dei 394mila impiegati pubblici solo 1580 furono licenziati e comunque molti rientrarono in seguito.
Il Presidente della “Corte Costituzionale” nel 1957, Gaetano Azzariti, solo 19 anni prima era stato presidente del “Tribunale della Razza”.
Tanto per citare “carriere” iniziate nel “Regime” e proseguite nella “Repubblica”.
Si pensi poi, al mantenimento del “codice Rocco” e del “Testo unico di Pubblica Sicurezza” di chiara marca fascista.
Scelba, ministro degli Interni dal 1947 al 1953 e poi dal 1960 al 1962, ricollocò, con licenza di uccidere, un cospicuo numero di funzionari fascisti in posti chiave per l’ordine pubblico.
Da qui la repressione cruenta delle lotte del movimento contadino nel Meridione, culminate nella strage di “Portella della Ginestra”, che venne preceduta e seguita dagli assassini di decine e decine di sindacalisti e di membri delle “Camere del Lavoro”.
Liberi di agire, ex-repubblichini come Almirante, Michelini, Rauti fondano partiti con nuovi nomi e simboli, altri prendono parte attivamente come manodopera nella “Strategia delle tensione”. Per non parlare dei ripetuti, ed abortiti, tentativi di golpe: “Piano Solo”, “Golpe Borghese”, “Golpe Bianco”.
L’Italia, in definitiva, non ha mai assistito ad una reale defascistizzazione, ad una “Norimberga italiana”.
Magistratura, Polizia, Esercito, Burocrazia si sono sottratte ad una bonifica democratica, per le colpevoli complicità di un ceto politico gattopardesco.
Senza contare, ma è un’altra storia, il ruolo giocato dagli “Alleati” (Amerikani) sul suolo italiano.
« Il Fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l’indice su ognuna delle sue nuove forme, ogni giorno, in ogni parte del mondo» (Umberto Eco)
Alfredo Facchini