Con il suicidio nel carcere di Pavia di Michael Mangano, di trentatre anni, il conto di chi si è tolto la vita nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno sale a 38 persone. L’estate è una stagione particolarmente difficile per chi vive in prigione, lo conferma il segretario generale del Sindacato di Polizia Penitenziaria Aldo Di Giacomo, che denuncia anche l’attesa del piano di prevenzione della Regione Lombardia. Nella regione ne sono avvenuti nove di suicidi, rispettivamente due a Monza, due a San Vittore a Milano, due a Pavia e uno a Como, Opera di Milano e Sondrio. Il tasso di suicidi in carcere è 17 volte superiore al tasso di suicidi all’esterno del carcere.
Le attese sono molte, si parla di un programma individualizzato, con interventi sanitari e sociali, nel sostegno e nella sorveglianza, così come è previsto uno staff multidisciplinare composto da rappresentanti del personale penitenziario e sanitario. Ma l’ultimo episodio dimostra che bisogna fare in fretta, la situazione si aggrava ogni giorno di più. Dice Di Giacomo che “La pandemia ha accentuato situazioni di disagio mentale, apprensione ed ansia, ha avuto e continua ad avere ripercussioni ancora più gravi nelle carceri dove il personale di sostegno psicologico come quello sanitario in generale ha numeri ridotti e non riesce a far fronte all’assistenza”.
“Uno Stato che non riesce a garantire la sicurezza del personale e dei detenuti testimonia di aver rinunciato ai suoi doveri civici”, afferma Di Giacomo. Ma il problema oltre i suicidi è il carcere in sè, che ospita in particolare persone povere, tossicodipendenti e stranieri, categorie deboli con un’azzerata capacità di difendersi dal sistema, a cominciare dal processo, per mancanza di forza economica. Spesso si tratta di persone che anche fuori dal carcere vivono ai margini e hanno necessità di assistenza e cure. Ma è possibile abolire il carcere?
Ne sono convinti Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federico Resta, autori del libro “Abolire il carcere”, che spiega come il progetto non sia un’utopia a una scelta di civiltà realizzabile se affiancata da strumenti che coinvolgono le istituzioni e l’intera società. I detenuti realmente pericolosi, evidenziano nel libro, non superano il dieci per cento del totale di quelli attualmente reclusi. Il carcere non funziona, questo è il punto, dimostrato ogni giorno dagli episodi di prevaricazione e violenza che avvengono al suo interno e come conferma il triste dato che sette detenuti su dieci dopo aver scontato la pena commettono un nuovo reato. Al contrario chi ha beneficiato d’indulto ha un tasso di recidiva molto inferiore. Grazie al lavoro esterno e alle pene non carcerarie molti Paesi hanno già intrapreso la strada del superamento del carcere, soprattutto la Svezia.
Mentre in Italia il 55% dei condannati sconta la pena in carcere, la percentuale scende al 28% in Germania, al 36% in Inghilterra e al 30% in Francia. Il primo passo da compiere in questa direzione è la depenalizzazione dei reati minori. E’ possibile sostituire la sanzione penale con sanzioni amministrative o civili. Gli autori del libri chiedono l’abolizione dell’ergastolo, che contrasta con il principio rieducativo della pena, ma sono molte le leve su cui potrebbe agire le istituzioni, a cominciare dal tenere fuori di prigione che è in attesa di giudizio, un dato che attualmente riguarda un terzo della popolazione carceraria. Per i reati più gravi, sostengono gli autori, la soluzione sarebbe quella di far diventare il carcere un luogo presidiato di diritti e garanzie, unica condizione affinché svolga una funzione in qualche modo rieducativa”.
Nel nostro Paese poco o nessuno spazio viene dato alla giustizia riparativa, capace di risarcire la vittima o di reintegrare il bene giuridico leso dal reato con una sorta di risarcimento indiretto alla collettività. Nella postfazione del libro il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky risponde così alla domanda sulla effettiva efficacia del carcere: “E’ il solo modo di soddisfare una pulsione sociale che richiede segregazione ed espiazione attraverso il dolore”. E questo non è accettabile per una società che vuole evolversi verso principi di civiltà e giustizia.
