Molto è cambiato in Brasile con la fine della presidenza di Lula Da Silva nel 2011 e non si può dire che si siano viste svolte positive per la popolazione nel corso dell’ultimo decennio.
Con 212 milioni di abitanti e risorse del territorio che da sole permetterebbero di sfamare un miliardo di persone, il Brasile può essere considerato uno dei paesi più diseguali al mondo dal punto di vista della distribuzione del reddito. Secondo quanto riportato da una ricerca condotta da Oxfam, nel 2017, il 5% della popolazione più ricca guadagna al mese quanto il 95% del resto degli abitanti. Per dare un’idea, sei brasiliani tra i più ricchi possiedono lo stesso ammontare di risorse in mano a 100 milioni di persone, la metà della popolazione.
Questo avviene nonostante il Paese sia il primo esportatore al mondo di carne al mondo, il secondo per l’esportazione mondiali del granturco e il più grande produttore su scala globale di zucchero e caffè. Tuttavia, ad esempio, la carne è un prodotto inaccessibile ai più a causa dell’inflazione che solo negli ultimi due anni, anche a causa della pandemia e dello scoppio del conflitto tra Russia e Ucraina, ha visto un aumento dei prezzi fino al 70%, insieme a riso e fagioli, prodotti essenziali dell’alimentazione quotidiana.
I dati rilevati in merito alla povertà sono infatti allarmanti. Solo tra il 2019 e il 2021 il 29,5% della popolazione, circa 61 milioni di persone, risultavano vivere sotto la soglia di povertà e altre 27 milioni sono sopravvissute in condizioni di povertà estrema.
Uno studio condotto dalla Rete Brasiliana per la sicurezza alimentare segnala come dal 2018 questa sia aumentata del 54% rispetto agli anni precedenti. Più della metà della popolazione non è riuscita ad avere pieno accesso al cibo in maniera costante. 19 milioni di persone, in particolare famiglie di piccoli agricoltori, hanno sperimentato un’insicurezza alimentare grave, rimanendo anche per giorni senza cibo in tavola o rovistando tra i rifiuti. Inoltre sono 100 milioni le persone senza accesso a un sistema di raccolta delle acque reflue e 35 milioni quelle senza accesso all’acqua potabile, come segnalato da Amnesty International.
Con l’avvento della pandemia la situazione è peggiorata in maniera drammatica. La povertà è triplicata dal 2019 con 17 milioni di persone in più al di sotto della soglia a causa del Covid, riporta uno studio della Fondazione Getulio Vargas.
Ma non è solo il Coronavirus la causa delle condizioni disastrose in cui vige più di metà della popolazione brasiliana. La Pandemia non ha fatto altro che premere l’acceleratore su una bomba ad orologeria già pronta da anni ad esplodere, distruggendo un equilibrio sociale molto sottile.
E’ il governo che ha invece contribuito più di tutti all’impoverimento della popolazione e allo smantellamento del sistema di previdenza sociale precedente, più volte lodato dalla comunità internazionale come uno dei piani più strutturati e funzionali, a lungo termine, per risolvere il problema della fame tra i cittadini.
Il governo di Michel Temer prima, e l’attuale governo guidato da Jair Bolsonaro, hanno spinto il Paese in condizioni di precarietà e repressione sempre più gravi. Il programma di assistenza pensato dall’ex Presidente Lula nel 2003, il “Bolsa Familia”, che unificava a livello federale i vari piani di sussidi fino a quel momento erogati frammentariamente, e gestiti perlopiù dai singoli Stati, ha dato la possibilità a 40 milioni di persone di uscire dalla povertà.
Temer è stato invece l’autore, nel 2016, dell’infelice riforma del lavoro, la più ingiusta vista nel Paese dai tempi della dittatura, smantellando il sistema di contrattazione collettiva tra sindacati e aziende, che ha protetto i lavoratori dalle ingiustizie sin dagli anni ’90. Dalla sua riforma, per quattro anni di seguito il Brasile è stato inserito dalla Confederazione Sindacale Internazionale tra i 10 peggiori al mondo per lavorare. È responsabile infatti dell’aumento delle ore di lavoro giornaliere fino a 12, con mezz’ora di pausa prevista dalla legge, e dell’eliminazione in molti casi dell’assicurazione di disoccupazione.
Ma il fattore più grave, se non criminoso, è stato il congelamento della spesa pubblica per i prossimi venti anni, a fine di risanare il bilancio statale, a scapito degli investimenti nell’istruzione, nella sanità e nella spesa sociale.
Il colpo di grazia al precedente sistema di prevenzione sociale è però arrivato dall’attuale Premier Bolsonaro, da sempre critico verso gli aiuti statali per i poveri, definiti da questo come “Incapaci in tutto”.
In concomitanza con la fine degli aiuti d’emergenza previsti per la pandemia, che consistevano in un assegno fino a 130 reais (23 dollari al mese circa) di cui hanno beneficiato 68 milioni di persone, già sospesi nei primi tre mesi del 2021 e poi ridimensionati per una platea più piccola, arriva l’annuncio dell’introduzione dell’“Auxilio Brasil” nell’ottobre 2021.
Questa misura consiste nell’erogazione condizionata di 400 reais al mese, circa 72 dollari, per famiglia, indipendentemente dalla costituzione del nucleo familiare. Sono quindi le famiglie più numerose, che coincidono spesso con la fascia più povera della popolazione, ad essere penalizzate.
Il 14 luglio scorso il Senato ha approvato l’aumento fino a 600 reais per famiglia, ma questo è stato inquadrato come un tentativo di Bolsonaro per riconquistare la parte più povera del suo elettorato in vista delle prossime elezioni di ottobre. Questa misura è comunque stata definita inconsistente dai più, rispetto all’aumento del costo della vita, per cui attualmente 100 reais non sono sufficienti neanche per l’acquisto di una bombola di gas, e alla diminuzione del numero di beneficiari.
Non solo, il Presidente avrebbe perfino utilizzato, in spregio ai poveri, 376 milioni di reais precedentemente destinati al piano Bolsa Familia per spese militari come denunciato il 24 giugno scorso dal quotidiano locale Folha de S. Paulo.
Tra tutti sono i lavoratori informali, in media il 40% della popolazione, i più colpiti dall’impoverimento recente. Grazie a Temer infatti è stato legittimato il cosiddetto lavoro “intermittente”, elevato a “formale”. Questo fa sì che nonostante gli stipendi da fame in questo settore, per cui si stima che per arrivare a guadagnare l’equivalente di 500 dollari al mese sia necessario lavorare 12 ore al giorno, sette giorni su sette, si venga registrati paradossalmente come individui microimprenditori, dunque tassabili fino al 5% al mese rispetto al ricavato.
Questo è avvenuto promuovendo l’idea di inserire i lavoratori informali tra i beneficiari del sistema pensionistico, previsto ad oggi in Brasile per i lavoratori registrati. Quello che ne emerge è però un paradosso in quanto per beneficiare della pensione minima questi lavoratori dovrebbero lavorare il doppio dei loro corrispettivi inseriti nel mercato del lavoro formale, se non aspettare i 65 anni, l’età pensionabile, in un paese con molte aree dove l’età media non supera ancora quella soglia.
Inoltre 5 milioni di giovani, che lavorano con App come quelle di delivery, sono stati identificati dal governo come “fornitori di servizi” e dunque esclusi dalla retribuzione d’emergenza.
La mancanza di attenzione per i più vulnerabili mostrata dal governo durante la pandemia è inoltre senza precedenti. In questo delicato momento storico, proprio a causa dei tagli, il Sistema Sanitario Pubblico (Sus) ha registrato gravi carenze per quel che riguarda personale e risorse. Per dare un’idea Paulo Guedes, ministro dell’economia, aveva proposto una spesa dello 0,2% del Pil per far fronte alla pandemia. Il Brasile si è invece visto costretto a spendere l’8% delle sue risorse per affrontare l’emergenza sanitaria negli ultimi due anni, a causa del mancato investimento pubblico nella sanità.
“Lo smantellamento sistematico dei centri di assistenza psicologica e sociale gestiti dal Sus ha colpito molto le persone che soffrono di disturbi mentali” denuncia Leonardo Rodrigues dell’Ong “Casa de Sopa”, con sede a Fortaleza.
La pessima gestione della pandemia, per cui Bolsonaro è attualmente accusato di nove reati, tra cui quello di lesa umanità per le 120 mila morti evitabili, dalla commissione di inchiesta parlamentare appositamente istituita, non ha causato problemi alla popolazione brasiliana solo per quel che riguarda la sanità.
Oltre a disattendere le promesse fatte con la campagna “Zero Eviction”, che avrebbe dovuto sospendere gli sfratti durante l’emergenza mentre si registrano quasi 24 mila famiglie sgomberate tra marzo 2020 e ottobre 2021, è stato notato un significativo aumento della violenza nei quartieri più poveri da parte della polizia.
Solo nel 2020 sono 6.500 le persone uccise dalla polizia, di cui più di metà afrobrasiliane. Un fenomeno che continua nonostante già nel 2020 la Corte Suprema avesse ordinato la sospensione delle operazioni di polizia nelle favelas di Rio de Janeiro. Solo il 5 maggio scorso, nella favela di Jacarezinho, a Rio de Janeiro, quando sono morti per mano della polizia 27 residenti nel corso di esecuzioni sommarie, perché identificati come presunti indiziati.
