martedì, Giugno 6, 2023
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L’agenda della povertà, appunti per le elezioni

Dell’agenda sulla povertà non si occupa nè il primo nè il secondo nè il terzo polo da venire, in questa campagna elettorale mai così lontana dai problemi quotidiani delle persone. Eppure alcuni moniti vengono da interlocutori di rilievo, come l’ex presidente dell’Inps Tito Boeri, che citando i dati dell’indagine Banca d’Italia sui redditi delle famiglie nel 2020 e le ricerche svolte dall’Istat su mandato della Commissione Lavoro della Camera, ha affrontato la questione che non piace a nessuno affrontare.

“Chiunque si troverà a governare l’Italia dopo le elezioni del 25 settembre dovrà cercare di lenire le ferite della pandemia e affrontare le nuove emergenze sociali imposte dal ritorno dell’inflazione“. Boeri si riferisce ai vecchi e nuovi poveri, un milione di persone in più dal 2020 sotto la soglia della povertà assoluta. Il punto su cui si basano le osservazioni dell’ex presidente Inps è semplice: a precipitare nella povertà dopo la pandemia sono stati soprattutto coloro che erano impiegati nei servizi di alloggio e ristorazione, nelle attività artistiche, di intrattenimento e divertimento. E poi l’esercito di lavoratori autonomi, i lavoratori giovani con contratti temporanei. Queste tipologie d’impiego e di età, sono le statistiche ad affermarlo, sono state colpite dalla perdita del lavoro dieci volte di più dei lavoratori più anziani.

Se Boeri definisce bene la cornice c’è tutto un mondo di soluzioni da disegnare all’interno del quadro che nessuno affronterà lealmente in campagna elettorale, perchè bisogna spiegare agli elettori come intervenire e dove prendere i soldi per lenire le ferite della popolazione, a cominciare dagli ammortizzatori sociali. La mancanza di un intervento organico, e di una visione su come affrontare la povertà, viene dimostrata dalla sporadicità degli interventi governativi. Quelli effettuati durante la pandemia qualche piccolo effetto lo hanno avuto, nel contenere l’affondamento sociale, ma il calo dei redditi non può essere affrontato tappando qualche falla.

Certo non porta voti mettere mano seriamente al Reddito di Cittadinanza che alcune forze politiche in entrambi gli schieramenti di centrosinistra e centrodestra vorrebbero eliminare. Mettere mano seriamente al RdC significa rivedere la politica degli accessi allargando la platea dei beneficiari e quella dei controlli. Senza il RdC oggi avremmo un altro milione di poveri in più, sono le statistiche a confermarlo, una bomba sociale di difficile contenimento. Ma rivedere la politica degli accessi del RdC significa anche rivedere il sistema fiscale, perchè la questione dei controlli, la vera falla nei conti dello stato, mette in gioco i controlli relativi all’evasione fiscale, a quella fascia di cittadinanza cioè che è clandestina per l’erario e da cui attingere le risorse per una politica economica equa.

Come mettere in relazione RdC, formazione professionale e nuove occasioni lavorative, unico percorso qualitativo che rende il sussidio per la sopravvivenza quotidiana welfare e non beneficenza, implica rivedere le politiche del lavoro che c’è, poco ma c’è, ed è sottopagato. Perchè l’altra fetta clandestina di popolazione in questa campagna elettorale è data oltre che da chi è già in povertà da chi sta per finirci, lavoratori autonomi in testa, categoria truccata in cui si annidano in realtà le forme di lavoro dipendente più subdole, gli escamotage per non pagare il giusto la prestazione lavorativa.

A costoro che non usufruiscono del RdC non si può certo imputare di essere “furbetti”, visto che la media di 4/5 euro per ora lavorativa anche per lavori qualificati è del 38% inferiore alla media dell’intera Unione Europea. Molto più facile, anzichè affrontare l’intero sistema come welfare, puntare l’indice sui singoli comparti di spesa come se fossero elementi separati. Lo stesso giochetto di cattivo gusto che consiste nel trattare la questione del salario minimo come elemento a parte dello scontro politico e non parte integrante di un pacchetto complessivo d’interventi di protezione.

Con l’inflazione in crescita e la recessione alle porte, per qualche economista già oltre la soglia, il lavoro temporaneo, quello meno protetto, diventa il campo di guerra del padronato contro la legalità contrattuale, illegalità consentita dalle migliaia di contratti di lavoro partoriti in questi anni soprattutto da governi di centrosinistra. L’inflazione eroderà ulteriormente anche la capacità di spesa di chi oggi è occupato e si sente “fortunato” con un lavoro dipendente a tempo indeterminato ma con uno stipendio basso. Presto l’inflazione correrà oltre il 10% e la necessità di proteggere il salario dall’inflazione diverrà un’unica parte del problema del salario minimo orario, perchè entrambi per essere sostenibili con l’aumento dei prezzi delle merci, dovrebbero essere sottoposti a un meccanismo d’indicizzazione.

Non ci offendiamo se avete trovato queste riflessioni noiose. E’ la stessa cosa che pensano le forze politiche impegnate nella campagna elettorale dei loro elettori. Spiegare questi temi a chi vota, a chi vive o prova a farlo, non è semplice. Eppure i nodi economici per questa parte di Paese, il 10% già sotto la soglia di povertà, l’8% che sta per finirci e l’altro 10% che vive con un piede in entrambi i campi, sono esattamente questi. E non è meno populista che proporre la flat tax dire genericamente che si sta dalla parte dei più deboli, perchè il problema è la complessità del come. E la complessità non piace a nessuno, non dà ritorni d’immagine e tanto meno elettorali.

by Wendy Longo photography
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