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L’America a una svolta, la campana suona anche per noi

Il dato positivo delle ultime elezioni presidenziali negli Stati Uniti è stato l’aumento eccezionale dei partecipanti al voto. Si è superato abbondantemente il 66 per cento raggiunto nel 2020. E questo è avvenuto in tutti gli stati.

La democrazia in America è, dunque, viva e vegeta. E tale esito lascia ben sperare per le democrazie liberali dell’Occidente. C’era una parte importante delle nostre società che si era congedata dal vecchio teatrino della politica. Un teatrino noioso e vacuo dove si continuava a fingere conflitti ormai inesistenti tra proletariato e borghesia, progressismo e conservazione, eguaglianza e libertà.

Ebbene, questi spezzoni più o meno ampi di società, che in passato votavano partiti diversi o non votavano più da svariate tornate elettorali, questa volta hanno detto: “Ci siamo e vogliamo contare”. E nel prorompere in modo così inatteso nella scena politica hanno archiviato, in un colpo solo, la vecchia sinistra e la vecchia destra.

Bisognerà studiare bene cos’è il nuovo partito di Trump. Non è il vecchio partito repubblicano. Il tycoon ha emarginato il suo tradizionale establishment e lo ha sostituito con uno nuovo. È un ceto politico che non è più catalogabile nel vecchio schema destra/sinistra o conservatore/progressista.

Guarda a tutte le aree sociali e combina libertarismo tecnologico e fondamentalismo religioso. La globalizzazione non è più vista come un pericolo e a prevalere non è più la nostalgia di un mondo perduto o il desiderio di una nuova età dell’oro. Ma è l’euforia di chi avverte di avere finalmente voce in capitolo e di chi si sente, a modo suo, protagonista in uno scenario che prima gli appariva ostile e opprimente.

Il movimento creato da Trump, “Make America Great Again” (MAGA) era inizialmente radicato solo nelle chiese evangeliche. Oggi ha conquistato una parte preponderante del mondo cattolico. Secondo il “Washington Post”, il 56 per cento del voto cattolico è andato a Trump, contro il 41 per cento a Harris.

La base elettorale di MAGA, che era essenzialmente espressione dell’elettorato bianco del Sud, ora si è allargata verso le minoranze latino-americane (grazie ai suoi collegamenti religiosi) e verso la comunità afroamericana. Trump ha raccolto consensi tra coloro che sono infastiditi dall’esplosione dell’ideologia woke.

Questa è arrivata ormai a livelli così elevati di radicalismo e intolleranza da disturbare perfino una ampia fetta della stessa popolazione che dovrebbe godere dei suoi benefici, come i neri e i latinos. E MAGA è stata pronta a raccogliere quel disagio e indirizzarlo contro la sinistra liberal.

Inoltre, la campagna elettorale di Trump si è svolta sugli aspetti materiali della vita delle persone, come inflazione e immigrazione incontrollata. Problemi che la presidenza Biden non era riuscita a risolvere.

By Republican Party – Republican National Committee, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=154805560

Siamo solo in presenza del consolidamento di una delle tante forme di populismo che sono già apparse nella storia delle nostre democrazie?
In realtà, il trumpismo non pare essere soltanto una particolare forma politica del rapporto tra un leader e il proprio elettorato. In tale fenomeno emerge anche un orizzonte di senso, una visione del mondo che non ha nulla a che vedere coi vecchi nazionalismi o sovranismi o, nel caso americano, col vecchio isolazionismo.

Trump non sta minacciando la democrazia (anche se occorre sempre tenere gli occhi ben aperti, indipendentemente da chi vince e chi perde), le sta dando una torsione antropologica e valoriale per renderla più appetibile a quel popolo trasversale che lo ha votato.

Dinanzi a chi si ribellava per le disfunzioni degli apparati statali, il nuovo ceto politico messo in piedi dal tycoon non ha alzato le spalle, ma ha fatto proposte concrete per affrontarle. Alle imprese americane preoccupate per l’aggressività delle concorrenti euroasiatiche, la soluzione prospettata non è stata semplicemente quella difensiva dei dazi, ma la tessitura meticolosa di accordi bilaterali. Si è, dunque, alle prese con un nuovo ceto politico che si è presentato come aspirante classe dirigente.

Da una parte ribolle una società diffusa che la politica tradizionale non intercetta più, fatta di innumerevoli debolezze individuali che vorrebbero contare in una democrazia che sia in grado di adattarsi al loro ingresso nella scena pubblica, dall’altra si è materializzata una nuova élite che si propone di offrire inedite soluzioni politiche. Si vedrà se ne saranno capaci.

Prendere atto di questa realtà, che da decenni covava nei sotterranei delle nostre società e che oggi è esplosa in forma così eclatante negli Usa, significa predisporsi ad una riflessione approfondita oltre che ad un bagno di umiltà.

Le domande che dovremmo farci sono tante. Ma quelle prioritarie sembrano essere due: come adeguare le democrazie liberali nei diversi contesti nazionali e come pensarle ai livelli sovranazionali (a partire dalla Ue) per dare piena “cittadinanza” a chi ritiene di esserne privo? quali forme partecipative e comunicative (a cominciare dagli strumenti partitici) costruire per rendere effettiva tale “cittadinanza”?

Photo by Anthony Quintano, Creative Commons Attribution 2.0 Generic license
Alfonso Pascale
Alfonso Pascalehttp://alfonsopascale.it
Alfonso Pascale è uno storico, opinionista e docente di ruralità contemporanea
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