venerdì, Dicembre 8, 2023
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L’esternalizzazione dei servizi pubblici: l’inclusione scolastica disabili nel Comune di Roma

di Germano Monti

Abbiamo radunato in un unico articolo l’intera inchiesta di Germano Monti sull’esternalizzazione dei servizi pubblici, in particolare quello relativo all’inclusione scolastica degli alunni disabili nel Comune di Roma. Pubblicato in precedenza in cinque puntate ora è consultabile in un unico testo sempre su Diogene online. Buona lettura.

L’esternalizzazione di servizi pubblici è un fenomeno che in Italia ha preso piede sin dagli anni 80 ed ha progressivamente investito un ampio spettro di attività un tempo di esclusiva pertinenza pubblica. Sanità, trasporti, energia, telecomunicazioni sono fra i campi dove la gestione è passata dallo Stato ad aziende private ma i cui costi sono sempre a carico della fiscalità generale. Le conseguenze nefaste di questa politica – portata avanti indifferentemente da governi e amministrazioni di ogni orientamento politico – sono state avvertite con particolare evidenza a seguito dell’esplosione della pandemia Covid-19, quando è emerso drammaticamente come il sempre maggiore conferimento di fondi pubblici ad aziende private avesse portato al depauperamento dei servizi sanitari rimasti in capo al pubblico, a fronte di un arricchimento dei privati al quale, però, non corrispondeva alcun miglioramento dei servizi resi ai cittadini. L’esempio illuminante è stato quello dei reparti di terapia intensiva, pressoché inesistenti nelle strutture private convenzionate perché ritenuti poco redditizi, con il risultato che quelli presenti negli ospedali pubblici si sono rivelati troppo pochi per fronteggiare l’emergenza, con i risultati che, purtroppo, tutti conosciamo. Una dinamica abbastanza simile a quella avvenuta nel trasporto pubblico, dove la privatizzazione ha condotto all’abbandono delle linee ferroviarie a carattere regionale (quelle indispensabili per i movimenti dei lavoratori pendolari) a tutto vantaggio delle molto più remunerative tratte ad alta velocità.
I servizi sociali e socioassistenziali non sono sfuggiti a questo processo, anzi, vi sono stati totalmente coinvolti e a fare la parte del leone in quest’area è stato il cosiddetto “privato sociale” o Terzo Settore che dir si voglia. Per una maggiore comprensione di quanto avvenuto, limitiamo l’oggetto di questo articolo ad un segmento ed un territorio precisi: il servizio per l’inclusione scolastica degli alunni disabili nel Comune di Roma.


La Legge 104 del 1992 assegna la competenza per l’erogazione di servizi sociali e sociosanitari agli Enti Locali, che sono responsabili per la loro erogazione all’utenza. In quell’anno, il Comune di Roma attiva il servizio per l’assistenza educativa finalizzata all’inclusione scolastica degli alunni disabili e mette in campo il proprio personale. Fino al 1999, dunque, ad assistere gli alunni disabili delle scuole materne, elementari e medie sono dipendenti del Comune di Roma, i quali, nei periodi di chiusura delle scuole, vengono adibiti ad altre mansioni. A fronte della crescita di richiesta del servizio da parte delle famiglie di bambini con disabilità, nel 1999 la Giunta comunale – partiti di centrosinistra più Rifondazione Comunista – anziché procedere all’assunzione di nuovi dipendenti comunali, decide di esternalizzare il servizio e affidarlo ad associazioni e cooperative sociali, dando così luogo alla situazione che vedeva all’interno delle scuole lavoratori adibiti alle stesse mansioni ma con trattamenti economici e normativi che più diversi non potevano essere. Non solo le retribuzioni degli operatori delle cooperative (spesso inquadrati con contratti “atipici”) erano di gran lunga inferiori a quelle dei loro colleghi dipendenti comunali, ma nei periodi di chiusura delle scuole la loro retribuzione cessava del tutto, in quanto il Comune pagava il loro lavoro in base alle ore effettivamente svolte, cioè a cottimo.
Questa situazione anomala si è protratta per alcuni anni, tanto che, ancora nella prima metà degli anni 2000, nelle scuole romane erano in servizio 350 dipendenti comunali ed altrettanti dipendenti delle cooperative convenzionate. Il continuo aumento degli alunni richiedenti il servizio, parallelamente al blocco delle assunzioni da parte del Comune, ha portato negli anni successivi alla progressiva sparizione degli operatori comunali e alla totale appropriazione del servizio da parte delle cooperative sociali. Attualmente, a Roma nelle scuole operano circa 4.000 dipendenti delle cooperative sociali, mentre i dipendenti comunali residui si contano sulle dita delle mani.


A differenza di quanto propone la narrazione ufficiale, la realtà dimostra che la cooperazione sociale non è un valore aggiunto del welfare pubblico ma, al contrario, il piede di porco con cui il servizio pubblico è stato scardinato. Non solo: la cooperazione sociale si è rivelata un ottimo strumento per comprimere i diritti di lavoratrici e lavoratori, grazie alla complicità di CGIL-CISL-UIL, che sottoscrivono con le Centrali cooperative (Legacoop, Confcooperative e AGCI) contratti per loro assai favorevoli, sia dal punto di vista economico che da quello normativo. Non va dimenticato, inoltre, che il conferimento di lavori in appalto deresponsabilizza il committente nei confronti dei lavoratori e delle lavoratrici che nella pratica lavorano per lui ma, formalmente, non sono suoi dipendenti. Questa modalità di gestione è andata affermandosi nel privato, con aziende anche di enormi dimensioni (Amazon, tanto per fare un esempio) che appaltano a cooperative lavori di varia natura, come le pulizie o, sempre nel settore – in grande espansione – della logistica lavori di facchinaggio o di trasporto merci. Il libro di Valentina Furlanetto “Noi schiavisti” costituisce un ottimo strumento per la conoscenza e la comprensione di questa realtà, quando spiega come sia possibile acquistare carne di tacchino a due euro al chilo grazie ai bassi salari, la flessibilità oraria e l’assenza di misure di sicurezza che caratterizzano la vita lavorativa dei dipendenti delle cooperative cui le grandi aziende alimentari appaltano le mansioni che dovrebbero essere svolte con personale proprio.
Quando questo dumping salariale e normativo vede protagoniste le pubbliche amministrazioni e i servizi che sono tenute ad erogare, la situazione diventa ancora più grave, perché è lo Stato a deresponsabilizzarsi ed a lavarsi le mani di quello che accade a chi lavora per lui ed anche a chi avrebbe il diritto di usufruire di servizi efficaci ed efficienti.


Vediamo, quindi, qual è la situazione del servizio di inclusione scolastica degli alunni disabili a Roma e quella che vivono gli operatori.
Fino allo scorso anno scolastico, il sistema funzionava attraverso gare d’appalto, con le scuole della città suddivise in lotti municipali. Dopo che sia il T.A.R. che il Consiglio di Stato hanno bocciato l’ultimo bando, fortemente voluto e sostenuto dall’Amministrazione 5 Stelle, la nuova giunta di Roberto Gualtieri ha radicalmente modificato il sistema, introducendo l’accreditamento, che in sostanza comporta l’iscrizione delle cooperative ad un elenco dal quale la famiglia dell’alunno può scegliere l’organismo che dovrà occuparsi dell’assistenza al bambino, con la possibilità di modificare la propria scelta ad ogni nuovo anno scolastico. Questo sistema non ha fatto altro che aumentare il livello di precarietà e di sfruttamento di lavoratrici e lavoratori, senza, peraltro, produrre un miglioramento qualitativo del servizio.
Sono aumentati i contratti a tempo determinato, giustificati perché l’azienda non ha la certezza di vedere confermate le proprie assegnazioni di anno in anno, mentre non è affatto aumentata la capacità del Comune di vigilare sul rispetto dei diritti dei lavoratori, per il semplice motivo che il personale che dovrebbe effettuare i controlli previsti è del tutto insufficiente (praticamente, tutti i Municipi della Capitale soffrono pesanti carenze di organici), oltre al fatto che gli stessi lavoratori hanno paura di denunciare le irregolarità per timore di perdere il lavoro. Inoltre, si è diffuso a macchia d’olio il fenomeno dei contratti part time al minimo delle ore consentite mentre ai lavoratori vengono imposti orari molto più lunghi. Le cooperative stipulano con il lavoratore contratti da dodici ore settimanali, ma poi il lavoratore ne deve lavorare anche il triplo, senza che le ore supplementari gli vengano retribuite con la maggiorazione del 27% prevista dal CCNL delle cooperative sociali. Questo comporta per il lavoratore una serie di penalizzazioni molto gravose: sia i giorni di malattia che le ferie e i permessi, infatti, vengono retribuiti sulla base dell’orario contrattuale e non su quello effettivamente svolto, e anche il T.F.R. viene calcolato sulle ore del contratto sottoscritto, anziché su quelle realmente effettuate. Si tratta, quindi, di un danno serio subito da lavoratrici e lavoratori, mentre le cooperative ne traggono evidenti vantaggi, sia in termini economici che di flessibilità e ricattabilità della forza lavoro. Ad oggi, non risulta alcun controllo effettuato dal Comune di Roma e, naturalmente, alcuna sanzione inflitta alle cooperative, nonostante il nuovo Regolamento adottato dal Comune affermi che spetta al Municipio in cui opera la cooperativa “verificare l’applicazione degli accordi contrattuali di settore e la corretta applicazione del C.C.N.L. e dei Contratti e Accordi Collettivi Decentrati Integrativi Regionali e/o Provinciali di secondo livello, sottoscritti dalle Organizzazioni Sindacali e Datoriali comparativamente più rappresentative di categoria, al personale impiegato nel Servizio attivando, qualora necessario, l’Osservatorio del Lavoro, o Organo equivalente di autocontrollo interno all’Amministrazione capitolina, anche al fine di attuare strategie di contrasto al lavoro sommerso nel settore in questione e all’applicazione di CCNL spuri e mancato rispetto nella corretta applicazione normo-economica dei CCNL applicati. In caso di mancata corretta applicazione delle norme di legge e dei contratti o accordi collettivi, il Municipio, informatone il Dipartimento, provvede a valutare l’esclusione dell’Ente gestore dal Servizio e ad attivare le relative procedure amministrative”.


Purtroppo, come già accennato, spesso sono gli stessi lavoratori che omettono di segnalare i comportamenti scorretti e le violazioni delle cooperative. Leggendo i post e le comunicazioni sulle chat e sulle pagine Facebook, emerge un quadro a dir poco agghiacciante, che però non si traduce in iniziative concrete. Per esempio, le operatrici di una cooperativa accreditata in quattro Municipi hanno fatto sapere che una di loro è stata costretta a riprendere il servizio nonostante risultasse ancora positiva al Covid, con la minaccia di una riduzione dell’orario di lavoro e dello stipendio; un’altra ha dovuto presentarsi al lavoro con un braccio rotto e ingessato, sempre dietro minaccia di sanzioni da parte della cooperativa; decine di lavoratori e lavoratrici raccontano dei loro contratti da dodici ore settimanali mentre ne devono lavorare anche trentasei, senza – ovviamente – percepire la maggiorazione dovuta. Un caso emblematico è stato quello di A., operatore assunto dalla cooperativa Eureka con un contratto a tempo indeterminato, il quale, a metà novembre, si è ammalato, ha comunicato regolarmente la situazione all’azienda e ha avuto la malaugurata idea di chiedere quale fosse il trattamento previsto. Sentendosi rispondere che l’azienda non retribuiva i primi tre giorni di malattia e che l’INPS avrebbe provveduto a pagare quelli successivi, A. ha fatto notare che il CCNL prevede che i primi tre giorni di malattia debbano essere comunque pagati dall’azienda e tanto è bastato per vedersi licenziato in tronco. A differenza di quanto fanno in molti, A. non ha chinato la testa e si è rivolto al suo sindacato, l’Unione Sindacale di Base – USB, e al Comitato Romano AEC, che si sono subito attivati, insieme ad un altro sindacato di base, la Confederazione Unitaria di base – CUB. Dopo una prima manifestazione davanti la sede della cooperativa Eureka, della questione è stato investito il XIV Municipio, richiamandolo alle sue responsabilità. Anche i genitori dei bambini seguiti da A. si sono fatti sentire, denunciando il fatto che i loro figli erano stati abbandonati dalla cooperativa, che aveva allontanato un valido operatore senza nemmeno sostituirlo stabilmente. Ci sono voluti due mesi di manifestazioni e incontri con i vertici del Municipio, restio ad intervenire, nonostante le violazioni da parte della cooperativa Eureka fossero assolutamente evidenti. La situazione si è sbloccata quando la famiglia di uno dei bambini, con il sostegno dei sindacati e del comitato, ha incaricato un avvocato di inviare una diffida ai vertici politici e amministrativi del Municipio, intimando loro di intervenire se volevano evitare conseguenze pesanti (leggi: denuncia per omissione di atti d’ufficio). Meno di ventiquattro ore dopo aver ricevuto la diffida, il Municipio ha provveduto a revocare l’incarico alla cooperativa Eureka e ad affidarlo ad un’altra cooperativa accreditata, che a sua volta ha assunto A. per gestire l’assistenza ai bambini disabili.
La vicenda descritta riveste un doppio significato. Da un lato, dimostra come la mobilitazione dei lavoratori e delle loro organizzazioni sia in grado di rappresentare un robusto argine allo strapotere delle cooperative, ma, d’altro canto, evidenzia come il sistema delle esternalizzazioni dei servizi pubblici produca distorsioni tanto gravi quanto difficilmente sanabili, perché non tutti i lavoratori hanno la determinazione di A. e sono disposti a lottare per i propri diritti e le stesse istituzioni che dovrebbero vigilare sull’andamento del servizio pubblico si muovono solo se costrette a farlo. Un esame della situazione patrimoniale delle cosiddette cooperative sociali può aiutare a comprendere sia le dimensioni della questione, sia i motivi delle resistenze politiche – e non solo – che incontra chi vorrebbe cambiare lo stato di cose esistenti e restituire dignità ai lavoratori ed efficienza al servizio pubblico.


La narrazione dominante rappresenta le cooperative sociali come un valido strumento per la gestione dei servizi sociali, basandosi sulla loro natura intrinsecamente mutualistica e solidale. La realtà è completamente diversa.
Le cooperative sociali nascono con la legge n. 381 del 1991, che aggiunge questa nuova tipologia di cooperativa a quelle già esistenti (le cooperative di produzione e lavoro, quelle dei consumatori, quelle agricole, dei pescatori, ecc.). La loro natura appare chiara sin dal primo articolo: “Art. 1. Definizione

  1. Le cooperative sociali hanno lo scopo di perseguire l’interesse generale della comunita’ alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini attraverso:
    a) la gestione di servizi socio-sanitari ed educativi;
    b) lo svolgimento di attivita’ diverse – agricole, industriali, commerciali o di servizi finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate”.
    E’ chiaro che le cooperative sociali di tipo b) siano uno strumento positivo per facilitare l’inserimento nel mondo del lavoro di soggetti che, per vari motivi, possono esserne messi ai margini o del tutto esclusi, come gli ex detenuti o gli ex tossicodipendenti, oltre ai disabili. E’ altrettanto chiara, però, l’indole parassitaria delle cooperative sociali di tipo a), perché la gestione dei servizi socio-sanitari ed educativi non può che realizzarsi sottraendo questi servizi alla gestione diretta del pubblico, che ne è il titolare esclusivo. In altre parole, lo cooperative sociali di tipo a) non rivestono alcuna funzione produttiva, ma vivono esclusivamente accaparrandosi la gestione di servizi pubblici, ovviamente retribuita con denaro pubblico, che viene così dirottato verso aziende private, sia pure formalmente “senza scopo di lucro”. Aziende parassitarie, che non investono e, quindi, non rischiano un centesimo di tasca propria, limitandosi ad incamerare e gestire, più o meno onestamente, denaro pubblico.
    Su quanto questa gestione sia “onesta”, non intervengo, preferisco lasciar parlare gli atti delle inchieste sulle cooperative di Buzzi e Carminati e quelli, più recenti, sulle cooperative della famiglia Soumahoro. Trovo interessante, invece, far notare le dimensioni raggiunte da queste aziende che, in gran parte dell’immaginario collettivo, vengono viste come organismi di piccole dimensioni, formati da persone, perlopiù giovani animati da lodevoli intenzioni, che liberamente si associano per scopi sociali e mutualistici.
    Nel Comune di Roma risultano in attività circa 500 cooperative sociali, ma quelle che si spartiscono il grosso della gestione dei servizi sociali sono meno di una cinquantina. Le visure camerali disponibili al pubblico mostrano una realtà fatta di quelle che, secondo la normativa europea, devono essere considerate imprese né piccole, né medie, bensì grandi. Di seguito, qualche esempio.
    La cooperativa dal suggestivo nome “Le Mille e una Notte” dichiarava nel 2019 un fatturato di 11.360.451 euro e 607 dipendenti. La cooperativa “Obiettivo Uomo” nel 2021 ha fatturato 10.160.823 euro e nel 2023 ha alle sue dipendenze 498 persone. La cooperativa “Servizio Psico Socio Sanitario” segue con 7.701.544 euro fatturati nel 2022 e 544 dipendenti dichiarati nel 2021. Dietro abbiamo la cooperativa “SS. Pietro e Paolo” (6.465.900 euro fatturati nel 2021 e 325 dipendenti nel 2023), la cooperativa “AISS” (6.367.774 euro fatturati nel 2020 e 500 dipendenti nel 2021), la cooperativa “COTRAD” (5.733.801 euro fatturati nel 2020 e 226 dipendenti nel 2022), la cooperativa “Cecilia” (5.585.395 euro fatturati nel 2020 e 286 dipendenti nel 2022), la cooperativa “Eureka I” (5.420.496 euro fatturati nel 2021 e 289 dipendenti nel 2023), la cooperativa “Arca di Noè” (5.274.956 euro fatturati nel 2021 e 285 dipendenti nel 2022), la cooperativa “Meta” (4.638.005 euro fatturati nel 2020, 220 dipendenti nel 2022) e, infine, la cooperativa “Prevenzione e Intervento Roma 81” (4.613.908 euro fatturati nel 2019 e 294 dipendenti nel 2021). Per ultime, ma non certo per importanza, abbiamo lasciato due veri e propri giganti della cooperazione sociale. La cooperativa “ALDIA”, che nel 2021 ha fatturato 31.002.568 euro, con 2.081 dipendenti nel 2023 e la cooperativa “Medihospes”, che nel 2021 ha fatturato 89.798.264 euro ed attualmente ha alle sue dipendenze 3.311 persone.
    Molte di queste aziende sono cooperative solo di nome, nel senso che sono formate da un numero ristretto di soci, spesso coincidenti con i membri del Consiglio di Amministrazione, mentre i lavoratori sono semplici dipendenti e non partecipano minimamente alla gestione della cosiddetta cooperativa. Un’inchiesta condotta alla fine del 2019, poco prima dell’esplosione della pandemia Covid 19, fra gli operatori per l’inclusione scolastica delle cooperative convenzionate con il Comune di Roma mostrava che oltre il 70% degli addetti non erano soci ed oggi la percentuale è anche aumentata, come sono aumentati i contratti a tempo determinato e persistono i contratti “atipici”, nonostante siano espressamente vietati dal Regolamento comunale e da una Delibera del Consiglio Comunale risalente a più di venti anni fa, la n. 135 del 2000. Come detto, i controlli da parte delle istituzioni preposte sono pressoché inesistenti.
    E adesso vediamo quanto costa ai contribuenti questo modello di gestione dei servizi pubblici, sempre tenendo a riferimento l’inclusione degli alunni disabili nelle scuole romane.

Roma Capitale versa alle cooperative convenzionate 24 euro per ogni ora di lavoro effettuata dagli operatori, oltre a coprire il 90% del costo del pasto nella mensa scolastica. Il costo lordo di un’ora di lavoro ammonta a circa 13/14 euro, posto che il netto in busta paga è intorno agli 8 euro. Il resto della cifra sborsata dall’ente pubblico è volto a coprire altri costi del servizio, quali lo stipendio del coordinatore e tutto quanto occorra per le esigenze dell’azienda, vale a dire costi della sede, bollette, ecc. Va tenuto presente che la maggior parte delle cooperative svolge più di un servizio sociale per conto del Comune e per ognuno di questi viene retribuito il mero costo del lavoro ma anche le spese suddette, per cui avviene che le cooperative ricevano più finanziamenti per la stessa cosa, ad esempio l’affitto della sede. Lo sperpero di denaro pubblico è enorme, come enorme è il lucro realizzato dalle cooperative, ma questo non sembra interessare l’amministrazione capitolina, la quale, anzi, si oppone fermamente ad una richiesta di verifica dei costi comparata con quelli di un’eventuale gestione diretta del servizio con dipendenti pubblici. Questa verifica dei costi – in gergo tecnico “due diligence” – è avvenuta recentemente nei confronti delle attività svolte dall’azienda Multiservizi ed ha dimostrato che la gestione diretta dei servizi costa molto meno alla Pubblica Amministrazione rispetto a quanto avviene con il conferimento degli stessi a cooperative. Nel corso di un incontro con l’Assessora Claudia Pratelli, avvenuto lo scorso 3 febbraio con i sindacati CUB e USB e il Comitato Romano AEC, è stato proposto di effettuare una due diligence anche per valutare il costo del servizio di inclusione scolastica nell’ipotesi venisse sottratto alla gestione esternalizzata delle cooperative sociali per essere gestito direttamente, con proprio personale, dal Comune. La risposta dell’Assessora è stata che non era possibile, ma non si è capito perché, dato che non esiste alcuna norma ostativa in proposito e che sarebbe nell’interesse dell’Amministrazione avere esatta cognizione delle proprie spese.
Il motivo per cui si intende procedere con la gestione dei servizi sociali affidata alle cooperative è del tutto politico. Come si può facilmente intuire dall’entità dei fatturati, le cooperative sociali sono grandi organizzazioni in grado di far girare parecchio denaro, tanto a “sinistra” quanto a destra. La qualità dei servizi erogati e le condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici vengono dietro, molto dietro. Allo stato attuale, le cooperative hanno in mano la totalità dei servizi sociali del Comune di Roma e questi servizi rappresentano il secondo centro di costo della Capitale, subito dopo i lavori pubblici. Nemmeno la trasparenza sembra rappresentare una preoccupazione per la politica capitolina, tanto è vero che anche aziende coinvolte nella vicenda di Mafia Capitale continuano a gestire i servizi ed a ricavarne somme ingenti.


La già citata cooperativa Medihospes gestisce i due terzi dell’assistenza alloggiativa nella città di Roma. Dal rapporto 2022 “Il vuoto dell’accoglienza”, a cura di OpenPolis e ActionAid: “Si tratta di Medihospes, di cui abbiamo parlato già nel 2020, una cooperativa sociale che nel 2021 contava su 3mila 500 dipendenti, sfiorando i 90 milioni di ricavi. Negli anni precedenti al 2018 Medihospes si chiamava Senis Hospes. Nel corso del 2018 ha incorporato Tre Fontane, un altro grande gestore dell’accoglienza in Italia, che prima di allora era sua cooperativa ausiliaria. Medihospes ha fatto parlare di sé in questi anni. Innanzitutto perché, secondo un’inchiesta di Repubblica del 2015, avrebbe condiviso sedi e iniziative promozionali con il gruppo La Cascina, uno dei soggetti al centro dell’inchiesta “Mafia capitale”. In secondo luogo perché è stata tra i gestori del Cara di Borgo Mezzanone (Foggia), centro oggetto di un’inchiesta de L’Espresso per la violazione dei diritti dei migranti che lì vivevano. Ma anche tralasciando questi trascorsi resta il fatto che affidare 2/3 dell’accoglienza a un solo gestore, chiunque esso sia, significa che l’amministrazione (l’ente appaltante) rischia di subirne la capacità di condizionamento”.
Questa “capacità di condizionamento” si è mostrata plasticamente nel luglio 2019, quando le forze dell’ordine procedettero allo sgombero delle famiglie di senzatetto che occupavano l’ex scuola “Don Calabria” in via Cardinal Capranica a Primavalle (qualcuno, forse, ricorderà l’immagine del bambino che porta via i suoi libri sotto lo sguardo arcigno dei celerini in assetto antisommossa). Delle persone messe in mezzo ad una strada, 145 accettarono la soluzione alternativa proposta dal Comune di Roma, all’epoca retto dalla giunta dei 5 Stelle di Virginia Raggi. Nel giro di pochi giorni, emerse che solo 60 persone erano state effettivamente collocate negli appartamenti di Centocelle e Tor Vergata e che le condizioni di quegli appartamenti lasciavano molto a desiderare, fra spazi angusti, sporcizia e tapparelle rotte. L’allora deputato e consigliere comunale Stefano Fassina, dopo aver visitato quegli appartamenti, rivolse un’interrogazione urgente alla Sindaca Raggi, chiedendo “Se non si consideri uno spreco di risorse spendere oltre 64mila euro per assistere per 30 giorni 60 persone, quando nel territorio di Roma insistono centinaia di immobili pubblici e privati che sono inutilizzati e lasciati degradare” e concludendo con l’invito a superare un sistema basato sul privato. Le stamberghe in cui erano state portate le persone sgomberate dal “Don Calabria” e per le quali il Comune di Roma pagava le cifre denunciate da Fassina erano, ovviamente, di proprietà della cooperativa Medihospes.


Dall’assistenza domiciliare agli anziani e ai disabili all’emergenza abitativa, dall’accoglienza agli immigrati all’inclusione scolastica degli alunni disabili, dalle case famiglia per le donne vittima di violenze ai progetti per i minori devianti, sia a Roma che in tutta Italia i servizi sociali sono ormai in mano al cosiddetto “privato sociale”, in massima parte a cosiddette cooperative. Come già detto, la cooperazione sociale parassitaria è il piede di porco con il quale è stato sistematicamente scardinato il welfare pubblico, in un processo avviato sin dalla fine degli anni 80 del secolo scorso. L’esplosione della pandemia ha reso evidenti le storture della privatizzazione nella sanità, mentre le inchieste giornalistiche e della magistratura hanno messo in luce quelle dell’affidamento dei servizi sociali a soggetti privati, quali sono a tutti gli effetti le cosiddette cooperative sociali: lavoratori poveri, precari e sfruttati, a fronte di servizi che fanno acqua da tutte le parti e di vere e proprie truffe e malversazioni, il tutto mascherato dalla retorica della “società civile” e della “solidarietà sociale”.

Germano Monti

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