di Alfonso Pascale*
Eravamo un centinaio di persone, sabato 6 aprile, nella basilica dei santi Ambrogio e Carlo al Corso, ad ascoltare il presidente del Censis Giuseppe De Rita e il capo dipartimento libertà civili e immigrazione del ministero dell’Interno Laura Lega. Hanno commentato i risultati della ricerca “La tentazione del tralasciare”, presentata da Giulio De Rita del Censis.
Il dossier presenta un paradosso. La società in cui viviamo è decisamente soggettivista, ma con soggetti deboli; fortemente individualista, ma con scarsa forza di affermazione individuale; parecchio egoista ma fatta da ego fragili.
Siamo tutti consapevoli della crescente dose di indifferenza che pervade il mondo: indifferenza verso gli altri, verso l’ambiente (tutti si lamentano, ma poi nessuno vuol rinunciare al suo stile di vita).
Eppure quella stessa indifferenza sembra che poi, come in uno specchio, chi la prova, finisca per rivolgerla anche verso sé stesso. Per questo motivo vince sempre più il tralasciare, la rinuncia alla sfida, allo sforzo e alla competizione.
In base ai risultati della ricerca, al 70% degli intervistati non piace la società in cui vive; al 32% non interessa far parte di una comunità, non se ne sente parte e non ne ha nostalgia. Il 48%, inoltre, percepisce di contare poco nell’ambiente in cui vive e crede che, tutto sommato, nella vita vinca la casualità. Tuttavia, il 54% delle risposte proviene da chi sostiene di aver trovato un senso nella vita. Non manca l’ottimismo: il 65% degli interpellati – tra questi anche persone anziane – ritiene che il meglio debba ancora venire.
È presente un’aspirazione a qualcosa di più alto: al 54% degli italiani manca qualcosa che i beni materiali non possono dare. È un vuoto che attende di essere riempito dalla dimensione spirituale. Significativo anche quanto emerge in merito ai rapporti con il prossimo: il 17% delle risposte ammette come l’egoismo abbia bloccato in passato il desiderio a fare del bene.
Secondo De Rita, agli individui è venuta a mancare l’intenzionalità: “se prima cercavamo di farci un automobile, una casa con le comodità, oggi che queste cose già le abbiamo, non ci impegniamo più per conseguire un risultato e tralasciamo qualsiasi dovere verso noi stessi e verso la collettività; questo nostro essere omissivi sta determinando una riduzione della stessa qualità umana della cittadinanza”.
L’iniziativa del Censis si è svolta a 50 anni dal convegno “La responsabilità dei cristiani di fronte alle attese di carità e giustizia nella città di Roma” che si tenne nel febbraio 1974, passato poi alla storia come il convegno “sui mali di Roma”.
A Roma, negli anni Settanta, 900.000 abitanti vivevano nelle borgate, 16.000 famiglie nei borghetti, 69.000 famiglie in coabitazione. Dalle 65.000 alle 100.000 persone abitavano in agglomerati di baracche, privi di fognature e di qualsiasi servizio igienico, malsane abitazioni prive spesso persino della corrente elettrica.
Le periferie romane, cresciute enormemente, si erano trasformate in luoghi di emarginazione prive di centri di aggregazione sociale, il più delle volte con pochi servizi, malamente collegate al centro della città dalla rete di viabilità pubblica, con scuole insufficienti al bisogno, spesso costrette ad organizzare gli alunni in doppi turni.
Nel 1973, Paolo VI aveva nominato Ugo Poletti vicario di Roma. Aveva scelto lui perché garantiva una presenza tra la gente con un approccio autorevole ma popolare. E lo aveva fatto per accelerare la stagione di ricezione conciliare in cui ricomporre le tessere del mosaico della comunità ecclesiale romana che si era articolata in maniera poco ordinata tanto dal punto di vista dell’organizzazione territoriale che da quello della comunione, di fronte alle sfide sociali e politiche della capitale.
Per affrontare le disuguaglianze sociali che erano cresciute nella città, Poletti si avvalse di un collaboratore d’eccezione, Luigi Di Liegro, giovane prete che aveva fatto esperienze pastorali nei quartieri disagiati di grandi città francesi.
E nel vicariato si formò un gruppo di lavoro, di cui facevano parte il vescovo ausiliare, mons. Giulio Salimei, don Di Liegro, il rosminiano don Clemente Riva, Luciano Tavazza, una delle bandiere del volontariato, e il sociologo Giuseppe De Rita. L’équipe si mise subito in moto e coinvolse circa 5 mila persone che si riunirono per tre giorni nella basilica di S. Giovanni in Laterano.
Nel ricordare quell’iniziativa, il presidente del Censis ha posto al centro della riflessione il tema dell’intenzionalità. “Il cambiamento – ha detto De Rita – deve essere intenzionale. Nel 1974 ci prendemmo carico di avere un’intenzionalità e ci chiedemmo: quale chiesa siamo? quale chiesa vogliamo? Senza intenzionalità non c’è cultura. La molla dell’intenzionalità è ragionare con gli altri, convincerli, stare con gli altri.
Senza intenzionalità non si cambia e si resta nel vuoto. Nel 1974 l’intenzionalità era l’inclusione, ovvero dare voce a chi non ha voce. Riprendere oggi il filo di 50 anni fa significa approfondire non più i mali di Roma, ma il cruciale male del soggettivismo indifferente”.
Sul carattere unico della città di Roma, “coacervo di persone con provenienze culturali e religiose diverse”, “da sempre multiculturale” si è soffermata Laura Lega: “Chi vive a Roma non ha la sensazione di appartenenza alla città. La vive, la usa, ma ha difficoltà a sentirla propria.
Quell’accidia del romano che ‘lascia fare’ per cinismo deriva forse da qui. C’è poca cittadinanza attiva, poco desiderio di un cambiamento volontario. Indifferenza e nichilismo ci fanno allontanare dagli altri, ma anche da noi stessi. L’indifferenza è figlia del timore di osare”.
Se il Novecento è stato un secolo di grandi conquiste economiche e sociali, si sono andati però affermando anche un “relativismo ed un individualismo esasperati”. Da qui il richiamo di Laura Lega alla Costituzione che, nell’affermare i diritti inviolabili di ciascuno, non guarda solo alla dimensione singola, ma anche a quella collettiva, all’essere parte di una comunità: “oggi a volte è prevalente il piacere sul dovere.
Tutti invece dobbiamo ritrovare il senso dei doveri, cementati dal principio di solidarietà, e ritrovarci nel rispetto delle regole che non sono imposizioni, ma strumenti indispensabili per vivere insieme”.
Alfondo Pascale
*Alfonso Pascale è uno storico, opinionista e docente di ruralità contemporanea