di Germano Monti
Sono tanti i punti oscuri nella vicenda di Stefano Dal Corso, il giovane romano del quartiere Tufello che si sarebbe suicidato lo scorso 8 ottobre nel carcere di Oristano. E tante sono le domande che si pongono Marisa, la sorella di Stefano, e le tante persone del quartiere che lo conoscevano bene e sono pronte a mettere la mano sul fuoco per affermare che uno come lui al suicidio non ci avrebbe mai nemmeno pensato.

In effetti, le stranezze sono molte. In primo luogo, non sembra esistere il benché minimo motivo che potrebbe avere spinto Stefano al gesto estremo di togliersi la vita. Il giovane si trovava nel carcere di Oristano per sua scelta, poiché era detenuto nel carcere romano di Rebibbia ma, dovendo affrontare l’udienza di un processo presso il tribunale della città sarda, aveva optato per il trasferimento, anziché per la partecipazione in video, perché così avrebbe avuto modo di incontrare la figlia, che risiede in Sardegna.
Stefano arriva ad Oristano il 4 ottobre e viene messo in una cella dell’infermeria del carcere, come sempre avviene con i detenuti in transito per breve tempo. L’udienza del processo si tiene due giorni dopo, il 6, e – stando a quanto lui stesso e il suo avvocato comunicano ai famigliari – prende una piega favorevole per il giovane romano. Stefano avrebbe dovuto essere riportato a Rebibbia il giorno successivo all’udienza, ma pare si sia verificato qualche problema nell’organizzazione del trasporto, per cui la sua permanenza ad Oristano si prolunga e il suo rientro viene fissato per il 13 ottobre. La cosa non lo affligge, perché gli permette di vedere nuovamente la figlia.

Il 12 ottobre, cioè il giorno prima del suo ritorno a Roma, Stefano viene trovato morto nella sua cella, impiccato con un lenzuolo alle inferriate della finestra. I conti iniziano subito a non tornare: perché un uomo che aveva avuto uno svolgimento favorevole nel processo a suo carico e che sarebbe tornato nella sua città per scontare ancora solo meno di due mesi di prigione, che aveva ricevuto diverse offerte di lavoro e che appariva entusiasta della possibilità di rifarsi una vita avrebbe dovuto suicidarsi?
Incaricata da Marisa, l’avvocata Armida Decina chiede immediatamente ad Oristano la documentazione su quanto avvenuto, ma le arrivano solo una scarna relazione di due paginette, in cui si dà per assodato l’avvenuto suicidio, e due immagini fotocopiate, in bianco e nero, del corpo di Stefano. Naturalmente, l’avvocata Decina torna alla carica con richieste formali e, dopo qualche settimana, riceve una relazione più corposa ed una dozzina di fotografie del corpo di Stefano. E le stranezze si moltiplicano.
Fra le foto inviate, non ce n’è nessuna che mostri il corpo per intero, senza vestiti. Non c’è nessuna immagine della scena al momento della scoperta del suicidio, quando sarebbe stato scoperto il cadavere. Nelle immagini, però, si vede il letto della cella era perfettamente rifatto, con entrambe le lenzuola al loro posto, per cui non si comprende con quale lenzuolo Stefano si sarebbe impiccato. Nelle fotografie, inoltre, si notano segni sulle braccia del corpo compatibili con una forte pressione, mentre la distanza fra l’inferriata e il letto sottostante non appare assolutamente sufficiente per provocare la rottura dell’osso del collo, motivo ufficiale del decesso del detenuto.
Emergono anche contraddizioni e inesattezze sia sull’orario del ritrovamento del corpo che sulla presenza di altri detenuti nelle celle vicine a quella dove era rinchiuso Stefano. Soprattutto, inspiegabilmente, la Procura di Oristano si ostina a rispondere negativamente alla richiesta di autopsia sollecitata dall’avvocata Decina e dalla famiglia di Stefano, esame che potrebbe chiarire i dubbi che, invece, persistono.
A cinque mesi esatti di distanza dalla morte di Stefano, lo scorso 8 marzo, si verifica un episodio che contribuisce ad infittire il mistero. Due sedicenti corrieri di Amazon consegnano a Marisa un pacco indirizzato al fratello. Il pacco è privo di mittente e contiene un libro di una veggente austriaca, Maria Simma, che sosteneva di comunicare con le anime del Purgatorio. Nell’indice del libro sono evidenziate due parole: “confessione” e “morte”. Il pacco non proviene da Amazon, qualcuno ha contraffatto il logo dell’azienda, il codice a barre e il QR code. Dei due “corrieri” non esiste alcuna traccia. A tutt’oggi, la sorella di Stefano preferisce non sbilanciarsi in ipotesi sulla provenienza del pacco e sulle motivazioni di chi lo ha fatto recapitare, né sul significato da attribuire alle parole evidenziate.

Dopo mesi di oscuramento, la vicenda di Stefano Dal Corso è stata portata all’attenzione dei media da una conferenza stampa promossa dalla senatrice Ilaria Cucchi alla fine di marzo e il 12 aprile diverse centinaia di residenti del quartiere di Stefano e della sua famiglia sono scese in piazza insieme a Marisa, all’avvocata Decina, in una manifestazione che ha percorso le strade del Tufello chiedendo verità e giustizia ed alla quale hanno preso parte il Presidente del III Municipio, Paolo Marchionne, e l’Assessore Luca Blasi, che segue costantemente l’evoluzione dei fatti.
La richiesta, chiara e forte, è quella di effettuare l’autopsia del corpo di Stefano, al punto che è stata lanciata una sottoscrizione per sostenere privatamente le spese dell’esame autoptico, nel caso la Procura di Oristano persistesse nel suo (inspiegabile, lo ripetiamo) rifiuto di disporlo. Si può sottoscrivere su https://gofund.me/13df2697 .
Sostenere la battaglia della Famiglia di Stefano Dal Corso e impedire che su questa storia cali il silenzio non è solo un atto di solidarietà, ma un elemento di difesa del livello di democrazia e di civiltà in un Paese che spesso sembra dimenticare quali siano i suoi valori fondanti. Sarebbe bello se tutta la città seguisse l’esempio dei cittadini del Tufello.
Germano Monti
