L’industria tecnologica globale dipende pesantemente da minerali essenziali come il coltan, il tungsteno e l’oro, componenti chiave utilizzati per la produzione di smartphone, computer e altri dispositivi elettronici.
Tuttavia, dietro a questa tecnologia, vi è un problema spesso ignorato: lo sfruttamento dei cosiddetti minerali sporchi di sangue, ovvero minerali estratti in condizioni disumane e che finanziano conflitti violenti in alcune delle regioni più instabili del mondo, tra cui la Repubblica Democratica del Congo (RDC).
La regione di Masisi, nell’est della Repubblica Democratica del Congo (RDC), è attualmente teatro di una situazione complessa e drammatica legata allo sfruttamento minerario e al conflitto. Masisi è ricca di risorse minerarie, tra cui il coltan (columbo-tantalite), un minerale fondamentale per la produzione di smartphone e altri dispositivi elettronici.
Nonostante l’apparente calma nella regione, i ribelli del gruppo M23, sostenuti da interessi esterni come il Ruanda, continuano a sfruttare illegalmente queste risorse. Il M23, un gruppo armato tutsi, ha più volte preso il controllo della città di Rubaya, centro strategico per l’estrazione del coltan, imponendo il loro dominio sulla zona mineraria.
Sebbene ufficialmente le esportazioni di minerali da questa regione siano vietate, il coltan viene comunque trasportato quotidianamente verso il Ruanda, spesso tramite traffici illeciti e sotto la protezione di milizie armate.
Questo commercio, come denunciano diverse organizzazioni internazionali e rapporti delle Nazioni Unite, è una delle principali fonti di finanziamento dei gruppi ribelli nella RDC, alimentando il conflitto e provocando instabilità nella regione.
Sebbene siano stati introdotti sistemi di tracciabilità, come l’ITSCI (Tin Supply Chain Initiative), volti a monitorare l’origine dei minerali e a garantire che non siano collegati a conflitti, il traffico illecito continua a prosperare.
Interi carichi di coltan vengono trasportati quotidianamente dai ribelli e dai loro alleati ruandesi verso il Ruanda, eludendo i controlli internazionali. Questo commercio clandestino alimenta ulteriormente i conflitti nella regione, contribuendo alla destabilizzazione del Paese.
Il coinvolgimento delle multinazionali, come Apple, nella filiera di approvvigionamento è stato oggetto di indagini. Nonostante le aziende affermino di rispettare standard etici, numerosi rapporti, tra cui quelli delle Nazioni Unite, suggeriscono che i minerali provenienti da aree di conflitto continuano a entrare nelle catene di produzione globali.
Il governo della RDC ha recentemente incaricato studi legali internazionali di indagare su queste violazioni e di valutare possibili azioni legali contro le aziende che beneficiano di questi minerali insanguinati.
Ma il Congo non è l’unico Paese coinvolto in questa tragica realtà. Altri Paesi africani, come l’Uganda e il Burundi, giocano un ruolo cruciale nel traffico illecito di minerali, fungendo da punti di transito per i carichi di coltan e altri minerali estratti illegalmente nella RDC
Questi minerali, conosciuti anche come “minerali di conflitto”, sono legati a gravi violazioni dei diritti umani, tra cui lavoro forzato, sfruttamento minorile e abusi sistematici da parte di gruppi armati. Le condizioni nelle miniere sono spesso disumane, con lavoratori costretti a scavare in gallerie instabili e pericolose, esposti a gravi rischi per la salute.
Nonostante gli sforzi per sensibilizzare i consumatori e le aziende sull’importanza di acquistare prodotti realizzati con minerali provenienti da fonti legali e sicure, il problema persiste. Le aziende tecnologiche, spinta dall’incessante domanda di dispositivi, si trovano a fare i conti con una catena di approvvigionamento globale complessa e opaca, che rende difficile garantire la totale trasparenza sull’origine dei materiali.