Il presidente eletto Donald Trump ha promesso una svolta radicale nelle politiche commerciali statunitensi, basandosi su una teoria economica che mette in discussione le tradizionali spiegazioni dei deficit commerciali cronici. Trump intende imporre tariffe significative su tutte le importazioni, colpendo in particolare la Cina, in un tentativo di riequilibrare il sistema commerciale globale.
Il deficit commerciale statunitense
Da oltre quattro decenni, gli Stati Uniti importano beni in quantità maggiore rispetto a quelli esportati, accumulando deficit commerciali che, secondo alcuni economisti, hanno contribuito alla perdita di milioni di posti di lavoro manifatturieri. La spiegazione convenzionale di questo squilibrio incolpa gli americani per un consumo superiore alla loro capacità produttiva, favorito da bassi tassi di risparmio personale e deficit di bilancio elevati.
Tuttavia, Michael Pettis, esperto di finanza e docente a Pechino, propone un’interpretazione alternativa. Pettis sostiene che i surplus commerciali di paesi come la Cina, sostenuti da politiche industriali aggressive, sono la vera causa dei deficit statunitensi. Questi surplus vengono reinvestiti in titoli del Tesoro, immobili e azioni statunitensi, rafforzando il dollaro e penalizzando le esportazioni americane.
La strategia di Trump
La proposta di Trump prevede tariffe del 60% sulle importazioni cinesi e una tassa universale del 10-20% sui beni provenienti da altri paesi. L’obiettivo è rendere i beni esteri più costosi, incentivando la produzione interna. Tuttavia, uno studio del Peterson Institute stima che queste misure potrebbero costare a una famiglia media americana tra i 1.700 e i 2.600 dollari l’anno.
Pettis, pur sostenendo la necessità di affrontare il problema, propone un approccio diverso, come una tassa sui flussi di investimenti esteri provenienti da paesi in surplus. Tuttavia, misure di questo tipo potrebbero destabilizzare i mercati finanziari e aumentare i costi di finanziamento negli Stati Uniti.
Il sistema cinese e il suo impatto globale
La Cina, principale artefice di surplus commerciali, adotta politiche che favoriscono i produttori a scapito dei consumatori. Tra queste, bassi tassi di interesse, assenza di contrattazione collettiva e incentivi mirati per i settori industriali. Questi strumenti sostengono una capacità produttiva eccedente e spingono le esportazioni, spostando la domanda globale verso la Cina e aggravando i deficit di paesi come gli Stati Uniti.
Questo modello ha permesso alla Cina di accumulare un surplus commerciale previsto in quasi 1 trilione di dollari per quest’anno, consolidando la sua posizione come gigante economico. Tuttavia, l’enfasi sulle esportazioni limita la crescita della domanda interna, un punto su cui anche esponenti del Tesoro USA, come Jay Shambaugh, concordano con Pettis.
Un confronto tra sistemi
Gli Stati Uniti e la Cina rappresentano due estremi opposti nella gestione economica. Mentre la Cina spinge la produzione industriale con politiche centralizzate e incentivi diretti, gli Stati Uniti si affidano a consumi e investimenti privati. Questo squilibrio non solo influenza i rapporti bilaterali, ma ha ripercussioni globali, spingendo altri paesi a schierarsi tra surplus o deficit.
Critiche e incertezze
Non mancano le critiche alle teorie di Pettis, considerate incomplete da economisti come Maurice Obstfeld, che sostiene che i problemi economici statunitensi non siano direttamente imputabili alla Cina. Per Obstfeld, il deficit commerciale americano è il risultato di scelte interne, non di manipolazioni esterne.
Il futuro del commercio globale
Le tensioni tra Stati Uniti e Cina rappresentano una battaglia economica e politica che potrebbe ridefinire il commercio globale. Mentre Trump cerca di proteggere l’industria americana, la Cina rafforza la sua posizione come motore di crescita globale. La sfida sarà trovare un equilibrio che contempli sia la sostenibilità economica sia la cooperazione internazionale, evitando che politiche protezionistiche o squilibri strutturali aggravino ulteriormente le fragilità economiche globali.