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Per cosa votiamo il prossimo 9 giugno?

Non votiamo Unione europea sì, Unione europea no. L’Unione di stati, a cui il Trattato di Lisbona (2009) ha conferito una sua propria personalità giuridica, è un’entità indipendente in cui tutti si riconoscono. Non solo i 27 paesi già aderenti, ma anche altri che si preparano ad aderire, come l’Ucraina.

Non ha senso trasformare l’Unione in uno stato federale. Vanno invece rimossi i problemi che hanno pericolosamente bloccato il processo di integrazione europea.

Fin dalle origini, l’integrazione europea è stata concepita come la risposta ad un drammatico problema: il nazionalismo. Il quale, nei decenni precedenti, aveva portato nell’Europa continentale a rivalità, conflitti e distruzioni.

Naturalmente non tutti i nazionalismi europei sono uguali. Quello inglese e quello scandinavo hanno tratti democratici indiscutibili. Tratti che nessun nazionalismo dell’Europa continentale ha mai avuto. Ma il nazionalismo che l’integrazione europea, fin dall’inizio, vuole tenere a bada e addomesticare è il nazionalismo etnico, che ha prodotto i totalitarismi del Novecento.

Il passaggio da questa visione dell’integrazione (tenere a bada i nazionalismi) alla sua traduzione istituzionale ha incontrato molte difficoltà.

La Comunità per la difesa europea, istituita a Parigi nel 1952, venne bocciata dal parlamento francese nel 1954. L’idea di un esercito europeo era stata lanciata da due italiani, Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli. De Gasperi aveva chiamato Spinelli, che stava dall’altra parte politica, e gli aveva chiesto di aiutarlo a definire il trattato istitutivo della Comunità per la difesa. In quel trattato era stato scritto in modo esplicito che si voleva dar vita ad una Europa federale.

Perché Europa federale? Perché la costruzione di un esercito europeo implicava la costruzione di un’autorità legittima europea. E un’autorità legittima europea significava autorità dotata di una legittimazione elettorale.

Ma quel processo fu bloccato. E la soluzione che fu trovata è stata: “Per favore, americani, rimanete in Europa”. E così la Germania nel 1955 entrò nella Nato.

Dopo il blocco della soluzione federale, ispirata dagli italiani, nacquero altre soluzioni: che si sono rivelate positive, per un verso, ma complicate, dall’altro.

Il posto di Spinelli venne preso da un altro visionario, questa volta francese, che si chiamava Jean Monnet. Il quale trovò una soluzione al problema dell’integrazione europea attraverso la formazione del mercato unico. Egli disse: “Non mettiamo in comune le grandi questioni (politica estera, difesa) ma partiamo dall’affrontare alcuni problemi concreti”. Con il Trattato di Roma del 1957 si costituì così il Mercato comune europeo (Mec). Secondo Monnet, il Mec avrebbe aiutato i cittadini a comprendere l’importanza di un’autorità sovranazionale: in quel caso, la Commissione europea.

In tal modo, dal 1957 fino all’Atto unico del 1986 e al Trattato di Maastricht del 1992, abbiamo creato il mercato più integrato del mondo.

Con il mercato unico, l’Italia, in due decenni, si è potuta trasformare da paese prevalentemente agricolo a paese settima potenza industriale del mondo. Un grande risultato da tenere sempre presente ed esaltare.

“Electing the new President of the European Parliament” by European Parliament is licensed under CC BY 2.0.

In tale processo, si è sempre pensato di più agli obiettivi da raggiungere e poco o niente alle istituzioni da costruire. L’ispirazione di Spinelli (partiamo prima dalla definizione delle istituzioni e, poi, portiamo avanti le politiche) è stata rovesciata. Monnet si è ispirato ad un altro modello: “Partiamo dalle politiche e, poi, vediamo che istituzioni vengono fuori”.

Ed è questo ribaltamento che ha creato problemi.

Abbiamo costruito un’entità sovranazionale per il mercato: la Commissione ha l’iniziativa legislativa, sottopone proposte al Consiglio dei ministri e al Parlamento; Consiglio e Parlamento votano a maggioranza, con maggioranze diverse. Per il mercato, dunque, le decisioni vengono prese correntemente e, tutto sommato, il sistema funziona.

Dopo la fine della Guerra fredda, si è fatta viva l’esigenza di introdurre nuove politiche, diverse da quelle del mercato unico. Ma per attivarle non venne adottato lo stesso sistema decisionale previsto per il mercato unico. Con il Trattato di Maastricht, le politiche messe sotto il tappeto nel 1957 (esteri, difesa, interno principalmente) vengono affidate non già ad un’autorità sovranazionale ma ad un coordinamento volontario dei governi nazionali, in una logica dunque intergovernativa.

L’unica eccezione è la moneta comune, decisa per fronteggiare l’unificazione tedesca. Quando la Germania annette i Länder dell’Est, si impone ad essa una moneta centrale sotto la sorveglianza di una banca centrale. Però i governi nazionali mantengono il controllo delle politiche fiscali. Abbiamo così costruito un sistema ibrido che chiamiamo “eurozona”. Abbiamo una centralizzazione federale che nel 2012 ha salvato l’euro. L’euro è stato salvato da una istituzione federale (BCE) e da un grande leader (Mario Draghi).

Per le altre politiche, invece, l’autorità di governo non c’è: le decisioni vengono prese attraverso un coordinamento volontario dei governi nazionali. Nel coordinamento volontario, ogni membro di quel tavolo ha un potere di veto. Mentre per la politica del mercato unico, se uno stato membro non rispetta le decisioni prese dalla maggioranza, questo paga delle multe. Nelle altre politiche non ci sono vincoli di tale tipo perché le decisioni vengono prese all’unanimità.

È attraverso questa differenziazione del sistema decisionale che Orbán blocca gli aiuti all’Ucraina per ottenere il via libera al finanziamento del Pnrr. Finanziamento che non può ricevere perché non rispetta le leggi dello stato di diritto.

Più l’Europa si è allargata, più ogni leader attorno al tavolo esercita il potere di veto. E attraverso questo meccanismo perverso è rientrato dalla finestra quello che De Gasperi, Schumann e Adenauer avevano cacciato dalla porta: il nazionalismo.

Sull’idea di nazione si dovrebbe essere chiari. Non si tratta di non riconoscere la legittimità degli interessi e delle identità nazionali. Questi ci sono e vanno rispettati. Ma il nazionalismo etnico si basa sul senso di superiorità di una nazione sull’altra. Non va confuso con l’identità nazionale. E poi c’è un altro aspetto da tener presente: non tutti i cittadini si sentono parte di un unico modo di sentire perché ci sono tanti elementi di divergenza che ci distinguono gli uni dagli altri, anche se poi tutti ci riconosciamo in un’unica identità nazionale. Nell’Europa continentale, il nazionalismo ogni volta che scivola diventa aggressivo. Bisogna, dunque, riprendere l’ispirazione di Spinelli volta ad addomesticare il nazionalismo. Bisogna continuare ad educare il cittadino che oltre a sentirsi italiano, francese o tedesco, deve sentirsi anche cittadino europeo. Ma bisogna anche rivedere il progetto europeo.

Per rivederlo, occorre riprendere non già lo slogan di Spinelli “Stati Uniti d’Europa”, che oggi sarebbe contraddittorio con quanto è necessario fare, ma l’ispirazione del progetto spinelliano: dare priorità alla costruzione delle istituzioni mediante la modifica dei trattati.

Si dice: “Bisogna abolire il diritto di veto”. Giusto. Ma per farlo bisogna superare la distinzione tra l’Unione sovranazionale e l’Unione intergovernativa. I cittadini devono sapere chi decide che cosa. La democrazia è fatta di conoscenza, trasparenza e responsabilità.

Dobbiamo essere consapevoli che solo un gruppo ristretto di stati potrebbe procedere nell’integrazione europea con questo intento.

Ci vuole, dunque, una integrazione a cerchi concentrici, lasciando in un cerchio più ampio i paesi che vogliono stare solo nel mercato unico e altri ancora a cui serve solo un tutoraggio politico.

Questa impostazione implica un dibattito all’interno dei partiti e delle famiglie politiche europee, dove ci sono tutti i partiti dei 27 paesi. Se non si fa chiarezza su questo punto, trovando un compromesso anche all’interno delle famiglie politiche europee, non può partire nessuna iniziativa per la riforma dei trattati.

Chi se ne fa carico? Ci sono candidati coraggiosi, disposti a prendere precisi impegni su questo punto nevralgico?

Il 9 giugno votiamo per differenziare l’integrazione europea e superare la distinzione tra Unione sovranazionale e Unione intergovernativa.

Alfonso Pascale
Alfonso Pascalehttp://alfonsopascale.it
Alfonso Pascale è uno storico, opinionista e docente di ruralità contemporanea
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