domenica, Giugno 16, 2024
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Iwao Hakamata e il fallimento del sistema giudiziario giapponese

Il mondo ha conosciuto il caso di Iwao Hakamata per un triste record. E’ entrato nel Guinness dei primati come il più longevo detenuto nel braccio della morte, dove è stato rinchiuso dal 1968 al 2014, per ben 46 anni. Hakamata è ancora vivo oggi, ha 88 anni, e attende un nuovo processo previsto per il 26 settembre dalla Corte Distrettuale di Shizuoka. Questo potrebbe finalmente portare alla sua assoluzione.

Hideyo Ogawa, uno dei legali di Hakamata, ha parlato in conferenza stampa dopo l’udienza di ieri che ha concesso il nuovo processo, descrivendo come la detenzione abbia trasformato la vita del suo assistito. Hakamata soffre della sindrome di Ganser, un raro disturbo dissociativo spesso riscontrato tra i prigionieri, che lo ha reso disinteressato agli eventi circostanti. Significativa nella sessione dell’udienza, una dichiarazione letta da un familiare delle vittime, che ha espresso la speranza che la verità emergesse dal processo.

Iwao Hakamata è nato nel 1936. Pugile professionista tra il 1959 e il 1961 nella categoria dei pesi piuma, una volta ritiratosi andò a lavorare presso una fabbrica di miso a Shizuoka. Il 30 giugno 1966, dopo un incendio nella residenza di un dirigente della fabbrica dove Hakamada lavorava, furono ritrovati i corpi del dirigente, di sua moglie e dei loro due figli, tutti pugnalati a morte.

Hakamata fu arrestato sulla base della sua confessione, ottenuta dopo 264 ore di interrogatori, e per la presenza di tracce di sangue e benzina sul suo pigiama. Durante il processo, Hakamata ritrattò la confessione, dichiarando che era stata ottenuta sotto tortura fisica e psicologica.

Nonostante le prove contestate, inclusi indumenti insanguinati troppo piccoli per Hakamata e un coltello inadeguato come arma del delitto, il tribunale distrettuale di Shizuoka lo dichiarò colpevole l’11 settembre 1968, condannandolo a morte. La Japan Pro Boxing Association e altre organizzazioni denunciarono pregiudizi contro i pugili e violazioni del principio di presunzione di innocenza. La condanna a morte fu confermata dalla Corte Suprema del Giappone l’11 novembre 1980.

Iwao Hakamada da giovane. Foto Amnesty International

Dopo il rigetto di un appello nel 1980, una nuova squadra di avvocati iniziò a lavorare per ottenere un nuovo processo per Hakamata. Le richieste furono respinte ripetutamente, nonostante il supporto di figure influenti come i pugili campioni del mondo Koichi Wajima e Katsuo Tokashiki, e la testimonianza del giudice Norimichi Kumamoto, che espresse pubblicamente i suoi dubbi sulla colpevolezza di Hakamada nel 2007.

Nel 2008 il test del DNA indicò che il sangue sugli indumenti usati come prova non apparteneva a Hakamada. Questa scoperta portò a una nuova richiesta di processo. Nel 2014, il tribunale distrettuale di Shizuoka ordinò il rilascio di Hakamada, citando possibili prove fabbricate ad arte e l’ingiustizia di mantenere in carcere un uomo di 78 anni in attesa di un nuovo processo.

Amnesty International e altre organizzazioni accorsero in suo sostegno, sottolineando l’urgenza di un processo equo. Nel giugno 2018, l’Alta Corte di Tokyo ribaltò la decisione di rilascio, ma a Hakamata fu permesso di rimanere libero a causa della sua età.

Il caso di Hakamata ha sollevato importanti questioni riguardanti il sistema giudiziario giapponese. Le dure condizioni di interrogatorio, la mancanza di avvocati durante gli interrogatori e la dipendenza dalle confessioni hanno messo in luce la necessità di riforme.

Amnesty International ha utilizzato il caso di Hakamata per evidenziare le problematiche del sistema della pena di morte in Giappone, sostenendo che queste condizioni possono portare i prigionieri a soffrire di gravi problemi mentali. La Federazione Giapponese degli Ordini degli Avvocati ha descritto il caso come un esempio di “interrogatori illegali” e ha chiesto la registrazione video di tutti gli interrogatori.

Il caso di Iwao Hakamata rimane un simbolo delle problematiche e delle ingiustizie del sistema giudiziario giapponese, spingendo per un cambiamento e una riforma che possa garantire processi equi e giustizia per tutti.

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